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Il cambiamento climatico non conosce frontiere.

La crisi climatica sta determinando un aumento degli eventi ambientali estremi:  siccità, inondazioni, erosione dei suoli e ondate di calore, causando spostamenti forzati e migrazioni.  La mobilità climatica, principalmente interna, è un fenomeno complesso multidimensionale. Le politiche migratorie UE, improntate sul paradigma della deterrenza non permettono di affrontare adeguatamente il fenomeno. Per questo necessario sviluppare approcci nuovi per proteggere i migranti climatici, combinando politiche ambientali e migratorie per una risposta efficace e inclusiva.

Cambiamento climatico e mobilità umana 

Il Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC evidenzia le devastanti conseguenze del cambiamento climatico: distruzione di abitazioni, perdita dei mezzi di sostentamento di milioni di persone, eventi ambientali  estremi, carenza d’acqua, diffusione di malattie, riduzione della produttività agricola e aumento della povertà. I rischi e le vulnerabilità crescenti stanno già influenzando la mobilità umana sotto forma di migrazione interna e transfrontaliera e di spostamenti forzati

Il rapporto che lanciamo oggi, “Il cambiamento climatico non conosce frontiere”, analizza i vari aspetti normativi, politici e concettuali che caratterizzano il nesso tra ambiente e migrazioni. Inoltre, offre uno sguardo sul caso specifico del Gambia, uno dei paesi africani dove la migrazione interna e internazionale è rilevante e le conseguenze della crisi climatica sono sempre più evidenti attraverso siccità, desertificazione, alluvioni, salinizzazione ed erosione del suolo. 

Nonostante le migrazioni e gli spostamenti forzati siano sempre più visti come il risultato degli effetti dei cambiamenti climatici, la mobilità umana è un fenomeno multi-causale e i fattori ambientali sono più opportunamente identificati come minacce o moltiplicatori di vulnerabilità, capaci di esacerbare condizioni di iniquità preesistenti così contribuendo, tra gli altri fattori, alla scelta migratoria. 

Il caso del Gambia 

La ricerca condotta in Gambia da Christopher Horwood e Katy Grant di Ravenston Consult, di cui il rapporto che presentiamo offre una sintesi, mostra che la mobilità climatica è un fenomeno complesso, variegato e fortemente influenzato dal contesto. Inoltre, include anche l’(im)mobilità, sia volontaria che involontaria. Da un lato, quando gli shock climatici riducono le risorse disponibili, le famiglie non possono spostarsi e rimangono “intrappolate” nelle loro aree di origine. Dall’altro, la scelta di restare può essere volontaria, nonostante il deterioramento delle condizioni di vita. 

È lecito parlare di migranti climatici? 

Tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del XXI secolo, si è sviluppato un intenso dibattito sulle migrazioni ambientali, con due visioni opposte: chi minimizzava il problema e chi enfatizzava il carattere forzato della mobilità climatica. Questi ultimi si dividevano ulteriormente tra chi vedeva nelle migrazioni climatiche una minaccia alla sicurezza dei confini e chi parlava di rifugiati climatici, termine problematico dal punto di vista legale, politico e concettuale

Ancora oggi è difficile definire chiaramente il “migrante climatico”, poiché gli spostamenti sono causati da molti fattori e l’impatto ambientale varia a seconda del contesto e delle persone coinvolte. All’interno delle Nazioni Unite, si parla di – mobilità umana nel contesto dei disastri, cambiamento climatico e degrado ambientale -. 

Non solo c’è dibattito su quale termine usare per descrivere il fenomeno, ma anche se sia necessario usarne uno solo. Nonostante l’aumento degli studi sulle migrazioni climatiche future, i dati presentano ancora notevoli limiti metodologici. Tuttavia, rispetto alle stime catastrofiste del passato, quelle più recenti mostrano che la mobilità climatica avviene prevalentemente all’interno dei confini nazionali, piuttosto che a livello internazionale. 

Sebbene il termine “rifugiato climatico” sollevi criticità legali e politiche, poiché non è riconosciuto dal diritto internazionale, l’aumento degli spostamenti dovuti a fattori ambientali rende urgente adottare meccanismi di protezione sia a livello internazionale che nazionale. È necessario, in tal senso, offrire forme di protezione per chi si sposta per motivi ambientali. 

Tuttavia, nel contributo di Francesco Ferri e Lorenzo Figoni, finché le politiche migratorie saranno basate sulla deterrenza, sarà difficile trovare soluzioni efficaci per proteggere chi migra a causa dei cambiamenti climatici. Sebbene sia improbabile l’istituzione di un nuovo regime internazionale diprotezione legale per i migranti climatici, è essenziale sviluppare nuovi approcci che amplino le opportunità di protezione, includendo le varie caratteristiche e forme di questo fenomeno. Ad esempio, anche se esistono forme di protezione umanitaria per rispondere agli eventi ambientali improvvisi, le persone colpite da fenomeni graduali (come l’erosione dei suoli e la salinizzazione dei terreni) sono più numerose e hanno meno possibilità di accedere a tali protezioni. Grazie al contributo di Chiara Scissa, il rapporto offre un’analisi critica e dettagliata del caso italiano, che prevede diversi status giuridici per proteggere le persone sfollate dai disastri, nonostante l’attuale governo populista e anti-immigrazione. 

Dal 2010, l’idea di vedere la migrazione come un adattamento ai cambiamenti climatici è diventata più diffusa. Questo approccio, più ottimistico, considera la mobilità una soluzione alle crisi ambientali, ma è criticato per non evidenziare adeguatamente la responsabilità dei Paesi industrializzati e le sfide dei diritti umani e della giustizia climatica. 

La situazione a livello di governance internazionale 

La governance della mobilità climatica internazionale è frammentata e caratterizzata dalla competizione per le risorse. Iniziative come il Global Compact on Migrationriconoscono il legame tra migrazione e cambiamenti climatici, ma mancano di vincoli e di un’implementazione efficace. E la protezione dei diritti umani è secondaria rispetto agli interessi nazionali. 

Anche nell’Unione Europea, le risposte politiche sono frammentate e incoerenti. Tra le principali iniziative della Commissione Europea sotto la presidenza di Ursula Von Der Leyen ci sono il Green Deal Europeo e il Nuovo Patto sulla Migrazione e sull’Asilo. Tuttavia, come evidenziato da Chiara Scissa nel suo contributo, non ci sono sinergie tra queste strategie. 

Le politiche di risposta alle migrazioni climatiche si basano sulla deterrenza e l’esternalizzazione delle frontiere, concentrandosi sulla dimensione esterna e usando le politiche climatiche e la cooperazione allo sviluppo per promuovere l’adattamento in loco. Questo approccio trascura l’espansione della protezione legale interna come intervento efficace per sostenere la migrazione come adattamento ai cambiamenti climatici

In conclusione, il rapporto evidenzia la complessità del legame tra clima e migrazione, spesso semplificato in modo eccessivo e strumentale. Questa complessità non dovrebbe giustificare l’inazione della comunità internazionale. a tal fine, è necessario adottare un approccio olistico basato sui diritti, prevedendo intervento su molteplici aree di policy. 

Attualmente, la governance delle migrazioni climatiche evidenzia un approccio tecnocratico e non considera adeguatamente i diritti umani, concentrandosi su buone pratiche a livello sub-regionale e nazionale finanziate dalla cooperazione allo sviluppo. Il sistema di protezione internazionale offre poche opportunità per i migranti climatici. Tuttavia, anche se un regime di protezione legale internazionale sembra improbabile, è fondamentale sviluppare nuovi e più efficaci approcci per ampliare le possibilità di protezione per chi si sposta a causa di disastri, cambiamenti climatici e degrado ambientale.  

Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Di Fabio Papetti
Editing di Lorenzo Bagnoli 

La notte del 4 settembre scorso le autorità di Tobruk, città nell’Est della Libia, hanno trovato 287 migranti, tra cui novanta minorenni. Provenivano tutti dall’Egitto e si trovavano in un capannone nella campagna a sud della città. Stando ai loro racconti, erano in attesa dei trafficanti che li avrebbero portati in Italia. Dal capannone, i migranti sono stati portati in uno dei centri di detenzione sotto il controllo del Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM), l’autorità libica preposta alla gestione dei flussi migratori che risponde al Ministero dell’Interno di Tripoli. 

Dopo alcuni giorni di prigionia, le autorità libiche hanno portato il gruppo al valico di confine di Emsaed. In perfetta simmetria, come in un riflesso sull’acqua, si fronteggiano la stazione libica e quella egiziana: è lì che i migranti sono stati rimpatriati. 

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Quando la Libia era parte dell’Impero dell’Italia fascista, qui sorgeva Forte Capuzzo, avamposto del Regio Esercito italiano. Il generale Rodolfo Graziani aveva costruito una recinzione di filo spinato a protezione del confine che terminava 286 chilometri più a Sud, presso l’oasi di al-Jaghbub, antica città berbera confinante con l’Egitto, di cui restano ancora ampie tracce. Oltre, inizia il mare di sabbia del Sahara. La vicinanza con l’oasi egiziana di Siwa ne fa ancora oggi l’unica tappa intermedia raggiungibile dai migranti lungo la rotta del deserto. È il crocevia della maggior parte dei traffici di persone che provengono dal territorio egiziano, ed è qui che con molta probabilità i vari componenti del gruppo hanno attraversato in tempi diversi il confine: la maggior parte di loro proveniva dalle aree di Assiut e Minya, zone centrali dell’Egitto bagnate dal Nilo. Trasportati nei furgoni dai trafficanti egiziani, i migranti hanno attraversato il deserto prima di fare tappa all’oasi libica. Hanno raccontato che durante il tragitto i loro passeur li hanno lasciati in condizioni misere, con una minima quantità di cibo e acqua per combattere il caldo. Da al-Jaghbub sono stati consegnati ai trafficanti libici della zona: qui diverse tribù e diversi gruppi paramilitari si spartiscono gli affari. Alcuni sono affiliati all’Esercito nazionale libico (LNA – Libyan national Army in inglese), la forza militare che domina la regione orientale della Libia, la Cirenaica. Dalla città berbera, i migranti sono stati in seguito portati verso nord, fino ad arrivare a Tobruk, dove avrebbero dovuto aspettare per poter prendere una nave che li avrebbe portati in Italia. 

L’economia sommersa dell’Esercito nazionale libico

L’Esercito nazionale libico è stato creato ufficialmente nel 2014 dal generale Khalifa Haftar alla vigilia della sua campagna denominata Karama (Dignità) contro i gruppi estremisti islamici presenti nell’est della Libia, principalmente a Benghazi. Dopo una serie di successi, i militari si sono guadagnati il supporto della popolazione e dell’esercito libico. Ma quando gli è stato chiesto di riconoscere il Governo di Accordo Nazionale (GNA in inglese) stanziato a Tripoli, Haftar ha negato l’appoggio, contribuendo a creare la divisione di oggi tra Est e Ovest. In questo modo Haftar ha avuto contro buona parte della comunità internazionale occidentale, ad eccezione in particolare della Francia, e non ha potuto accedere ai finanziamenti statali erogati dal governo dell’Ovest. 

In mancanza di un approvvigionamento economico legale, il LNA ha dovuto escogitare metodi meno convenzionali per riempire i forzieri. Uno degli esempi più evidenti è avvenuto proprio nella città di Benghazi, dove l’esercito è stato accusato dagli abitanti di aver saccheggiato o del tutto occupato le loro abitazioni e preso controllo delle loro attività durante il conflitto avvenuto dal 2014 al 2017: ancora oggi ci sono proteste per reclamare i beni sottratti. 

Insieme ai furti di proprietà, gli uomini del LNA si sono arricchiti attraverso traffici illeciti. Tra quelli maggiormente redditizi, prima di ottenere il controllo sulla tratta di esseri umani, c’è stato il traffico di petrolio. Già dall’inizio della campagna Karama uno dei maggiori finanziatori delle operazioni militari è stato Ali al-Gatrani, allora presidente della Commissione per il Commercio e gli Investimenti Internazionali del parlamento libico di base a Tobruk, coinvolto 

nella rete del traffico di petrolio che si dirama nel Mediterraneo e arriva fino in paesi come Italia e Malta. È infatti uno degli storici sostenitori degli uomini della Brigata al-Nasr, in particolare della mente del contrabbando di gasolio, Fahmi Slim Ben Khalifa (per approfondire). 

Una volta consolidata la posizione dell’esercito in territorio libico, il traffico si è espanso ed è diventato sistemico grazie all’aiuto dell’Autorità per gli Investimenti Militari e Pubblici, ente governativo che gestisce i soldi pubblici nella regione sotto il controllo di Haftar. Dai dati della NOC (acronimo di National Oil Company, la compagnia petrolifera libica) sono risultati carichi di carburante ordinati dall’Autorità e destinati a rifornire le navi militari a Benghazi e Tobruk in misura nettamente superiore rispetto alle necessità di navigazione delle imbarcazioni. Secondo diversi analisti, il petrolio in eccesso sarebbe spedito illegalmente dalle città costiere dell’est per arrivare fino a Malta, e non solo. Oltre ai collegamenti con i porti egiziani e ciprioti, negli ultimi due anni i traffici si sono estesi fino all’Albania: lo scorso 15 settembre la Guardia costiera albanese ha infatti sequestrato un carico dal valore di oltre 2 milioni di dollari trasportato da una nave attraccata al porto di Durazzo e avente equipaggio misto libico e siriano, come ha riportato la testata online Libya Review

La disponibilità di tanto petrolio è dovuta al controllo quasi egemonico della LNA sulle grandi riserve di giacimenti petroliferi che caratterizzano le zone a Nord-Est e Sud-Ovest del paese. Dai vasti campi nel deserto da cui si estrae il greggio viene l’80% degli export totali del paese verso l’Unione Europea, per un valore stimato intorno ai 3.2 miliardi di dollari. Sebbene le forniture per l’estero debbano per legge essere regolate dalla NOC, i militari di Haftar hanno in realtà un controllo diretto sui vari pozzi presenti e sulla gestione di parte dell’export. Il LNA fa affidamento sulle proprie truppe o su gruppi armati affiliati per gestire le risorse e per ricambiare la loro lealtà chiude un occhio sul traffico di petrolio che queste effettuano in maniera ormai costante. Il predominio sull’area dove si producono i prodotti petroliferi libici garantisce ad Haftar un’enorme potere: ad aprile di quest’anno infatti, Haftar ha avviato un blocco della fornitura di petrolio che è durato fino alla fine di giugno, causando perdite in termini di miliardi di dollari alla NOC e a Tripoli. Dopo la crisi, Haftar ha avuto diverse concessioni dal governo dell’Ovest, una su tutte il cambio dell’allora direttore della NOC, Mustafa Sanalla, in favore di Farhat Bengdara, persona vicina al generale libico. 

Diversi migranti tra i 287 che sono stati poi presi dalle autorità libiche nel capannone poco fuori la città hanno dichiarato ad Al Jazeera di aver pagato fino a 170mila lire egiziane, circa 8700 euro, per potersi procurare un posto per il viaggio.«La mia famiglia ha dovuto vendere i terreni che avevamo per farmi partire», dice un ragazzo ai giornalisti. Alcune famiglie hanno venduto i loro terreni e i loro beni per poter dare ai figli, anche minorenni, una possibilità per raggiungere le coste libiche, da cui poi partire per l’Europa. Nel tragitto sono stati derubati dei loro cellulari, soldi, beni in loro possesso e sono stati rinchiusi senza contatto con l’esterno. Non è raro che alcuni migranti vengano torturati, a volte fino alla morte. 

A destra, il Maggiore al-Tawati al-Manfi, a capo della Marina Militare della Libyan national Army (LNA) – Foto: Facebook

Nel capannone nella campagna di Tobruk non sono arrivati tutti insieme: c’è chi ha affermato di essere stato lì solo per qualche giorno e chi invece ha detto di esserci rimasto per mesi. Tutto questo fa pensare che ci sia un’organizzazione più grande di semplici trafficanti isolati che gestisce la tratta orientale della Libia. L’organizzazione non governativa specializzata in violazioni dei diritti umani Libyan Crimes Watch Organization, intervistata da IrpiMedia, ha rivelato che la zona che va da Tobruk no alla città di Derna (ad ovest rispetto a Tobruk) è controllata dagli “Uomini rana” libici, l’unità militare di sommozzatori appartenente alla Marina Militare Libica sotto la LNA guidata dal maggiore al-Tawati al-Man. Sarebbero proprio loro i trafficanti che stavano aspettando i migranti prima di essere presi dalla polizia locale. Gli Uomini rana infatti entrano in contatto con i trafficanti che percorrono la rotta fino a Tobruk e da lì prendono il controllo delle operazioni. I migranti egiziani sono stati lasciati nel deposito e man mano che passavano i giorni vedevano arrivare altri connazionali nel deposito. Una volta raggiunto un numero sufficiente da rappresentare un profitto vantaggioso per i trafficanti, il gruppo sarebbe dovuto essere spostato sulla costa durante la notte. Qui i migranti avrebbero avuto davanti a loro diverse barche di piccole dimensioni, solitamente di gomma o legno, che possono contenere tra le venti e le trenta persone. Scortati dalle truppe di al-Tawati, uomini e bambini sarebbero saliti sulle imbarcazioni che li avrebbero portati ad un’altra nave più grande, una “nave madre” (in Libia generalmente chiamata bulldozer) che aspetta lontano dalla costa (la nave è impossibilitata ad attraccare per via del basso fondale). La dinamica è identica a quella descritta dagli inquirenti italiani per le traversate del Mediterraneo cominciate dalle città dell’Ovest della Libia. Come sempre, le fasi di imbarco dalle navi più piccole alla nave madre sono tra le più delicate per il rischio di capovolgimenti: già ad aprile di quest’anno sono stati rinvenuti in una spiaggia nella vicina città di Shahat, a metà strada tra Tobruk e Benghazi, i corpi di chi aveva provato a imbarcarsi per i bulldozers, mentre l’ultima notizia in questo senso è del 27 agosto scorso, quando 27 persone imbarcatesi di notte con un gommone sono state capovolte dalle onde del mare, e di loro solo sette sono sopravvissuti. Una volta occupata tutta la nave, i migranti avrebbero visto gli Uomini rana prendere i soldi dai trafficanti locali, una percentuale per ogni persona salita a bordo, prima di essere lasciati andare in mare aperto e, inshallah, raggiungere l’Italia. 

Non si hanno informazioni precise sulle partenze ed è difficile stabilire se a bordo rimanga uno dei trafficanti per pilotare la nave. Secondo alcune testimonianze ottenute dalla Libya Crimes Watch Organization con i familiari delle vittime, i migranti sarebbero istruiti sul posto su come condurre l’imbarcazione e gli verrebbe dato un telefono con cui contattare le autorità internazionali per essere messi in salvo in caso di naufragio.

Dal 2021 si è visto un incremento nell’uso di barche da pesca in legno di dimensioni maggiori. Portare un carico più grande è un prerequisito fondamentale per aumentare i profitti che derivano dal traffico di esseri umani. Queste navi hanno una maggior stabilità e forniscono maggior possibilità di riuscita del viaggio in mare aperto rispetto alle piccole o medie imbarcazioni gonfiabili utilizzate dai migranti, soprattutto da chi viene dall’ovest libico. Grazie anche ai diversi canali social, i migranti si scambiano informazioni sui punti migliori da cui poter partire per raggiungere l’Italia e avere a disposizione mezzi adeguati è un fattore che pesa sulla scelta del posto in cui andare. Secondo il report del Global Initiative against Transnational Organised Crime (GITOC), nel 2021 si è registrato il doppio del numero di barche di legno rispetto al triennio 2018-2020. 

Da qui si inizia a capire il motivo dietro l’aumento delle partenze dall’est della Libia. In un momento delicato come la fine della guerra interna tra est e ovest della Libia finita nel 2020 che ha indebolito entrambe le fazioni, le forze del generale Haftar hanno trovato un nuovo sbocco economico capace di generare profitti per l’esercito e allo stesso tempo espandere ulteriormente il controllo militare sul territorio. Questo è stato reso possibile dall’Autorità per gli Investimenti Pubblici e Militari, un’organizzazione militare ora sotto il Generale Maggiore Ramadan Bu Aisha, il cui scopo principale è il coordinamento delle attività economiche della LNA e l’incremento delle sue capacità di produzione e militari. In pratica questo si traduce nella ricerca di altre fonti di guadagno e nel controllo di nuovi mercati non ancora battuti. 

Come funzionano gli ingressi dei migranti irregolari in Libia via aereo

A Benina, aeroporto di Benghazi, i militari dell’Autorità per gli Investimenti Pubblici e Militari sono attivi già dal 2018. Si presentavano all’aeroporto per prendere i migranti che provenivano da Egitto, Bangladesh e Siria e li facevano passare attraverso i controlli, generando a volte scontri con la sicurezza interna dell’aeroporto. Una volta fuori, gli uomini della Commissione consegnavano ai migranti, previa pagamento in contanti, un foglio che aveva la funzione di visto per far attraversare i confini della zona Est della Libia. Sicuri del loro stato regolare nel paese, i migranti si avviavano verso l’Ovest, direzione Tripoli, per trovare un modo di arrivare in Italia. Ma una volta fermati dalle autorità occidentali della Libia, gli veniva detto che questi visti non erano regolari perché ottenuti da un’autorità che non era riconosciuta dal governo di Tripoli. Con questo pretesto, i migranti venivano presi sotto la custodia delle unità di sicurezza, buona parte delle volte milizie o gruppi paramilitari, per poi essere portati nei centri di detenzione. Per evitare questa fine, che rendeva poco affidabile il percorso, dal 2019 l’Esercito ha cambiato strategia. Adesso, per chi arriva con una compagnia aerea, i militari forniscono un trasporto speciale, che chiamano taxi, e portano i migranti verso Tobruk, ora il centro di maggior concentrazione di migranti e di attività legate al traffico di persone. 

Una rotta particolarmente trafficata soprattutto dai migranti siriani è rappresentata dall’asse Damasco – Benina. Questa connessione è resa possibile dalla flotta aerea della Cham Wings, compagnia di volo di base in Siria e connessa con il regime di Bashar al-Assad. Già nel 2012 la compagnia aerea ha ricevuto sanzioni da parte degli Stati Uniti per l’accusa di essere complice nella logistica dell’esercito siriano durante la guerra scoppiata nel 2011. La compagnia era accusata di trasportare militari, armi e altri equipaggiamenti fondamentali all’esercito governativo, oltre che essere una delle vie di trasporto usate dal gruppo Wagner, milizia privata connessa con il Cremlino e tutt’ora presente in Libia. Alle sanzioni degli USA sono seguite quelle dell’Unione Europea a dicembre 2021, quando diversi voli sono finiti sotto i riflettori per aver portato migranti provenienti dall’Iraq a Minsk, in Bielorussia, di fatto aggirando i tentativi dell’UE di limitare il numero di migranti iracheni che arrivava alle porte d’Europa alla fine dello scorso anno. Sebbene l’Europa avesse pressato con successo il governo iracheno per fermare i voli diretti verso Minsk, il tragitto aveva solo subito una variazione, e invece di arrivare direttamente dall’Iraq, i migranti facevano tappa in Siria per poi partire alla volta della Bielorussia. Ad oggi, stando alle fonti dell’organizzazione Libya Crimes Watch Organization, la Cham Wings opererebbe voli diretti da Damasco a Benina, facilitando il traffico di persone dirette in Libia. I migranti siriani infatti si trovano a pagare circa 1500 dollari per arrivare a Benghazi, e da lì tra i 300 e i 500 dollari per avere un falso visto dalle truppe della Commissione per gli Investimenti Pubblici e Militari della Libia dell’Est che gli garantirebbe accesso al territorio nazionale. 

L’utilizzo dei soldi, delle attrezzature e dei mezzi dell’Esercito fedele ad Haftar per il traffico dei migranti permette di gestire gruppi più grandi di persone e di conseguenza aumentare i profitti. Il 26 ottobre è stato un caso esemplare del trend, con due grandi imbarcazioni segnalate dall’ong Alarm Phone alla deriva tra le zone di ricerca e soccorso maltesi e italiane con a bordo oltre 1300 migranti. Le due navi erano partite proprio da Tobruk, nella cui campagna erano stati trovati i 287 migranti egiziani. Questi numeri dall’est sono il risultato di un cambiamento avvenuto negli ultimi anni e che ha visto moltiplicare e professionalizzare i protagonisti attivi lungo la rotta. Come in un lungo ingranaggio di produzione in cui ogni operaio mette al servizio la sua competenza per completare un prodotto, così i vari attori coinvolti nella tratta mettono al servizio conoscenza del territorio, mezzi navali o terrestri per generare quello che per loro è un prodotto, una nave carica di persone, paganti, pronta a salpare. 

Migrare dal Bangladesh

I migranti che arrivano nell’Est della Libia non sono solo egiziani. Tanti sono bengalesi: «Il Bangladesh è uno dei paesi che maggiormente esportano forza lavoro nel mondo» afferma Benjamin Etzog, ricercatore presso il Bonn International Centre for Conflicts Studies (BICC), istituto di ricerca tedesco. «In qualche modo il paese ne ha fatto una strategia economica e molte famiglie basano la loro sussistenza sulle rimesse, i soldi che i migranti inviano da paesi esteri a casa» continua. 

Per lasciare il paese e garantirsi un lavoro una volta arrivati in territorio straniero, i migranti dal Bangladesh si affidano al dalal, termine che viene benevolmente tradotto come “agente di viaggio” o broker. Il dalal viene rappresentato come un facilitatore del viaggio che riesce a fornire documenti e biglietti aerei. È stimato che circa l’80% dei migranti dal Bangladesh si appoggiano al dalal, figura presente nel villaggio o nelle campagne e conosciuto dalla 

popolazione locale o, in certi casi, vicina alla famiglia del migrante. Il prezzo che viene proposto per il trasporto e i servizi offerti è talmente alto che la famiglia è costretta a vendere le proprie terre pur di dare una possibilità ai propri figli. Una delle prime tappe più battute sul percorso che li porterà poi in Libia è Dubai, dove, assicurano i dalal, si può trovare un buon lavoro per mantenere la famiglia che rimane a casa. In questo caso i dalal fanno le veci di compagnie di reclutamento fittizie basate negli Emirati il cui solo scopo è vendere illegalmente i visti lavorativi. Con la promessa di un lavoro, i migranti pagano fino a cinque volte il prezzo necessario per arrivare a Dubai e una volta arrivati si trovano in una posizione vulnerabile e facilmente sfruttabile, costretti a prendere i lavori più estenuanti per paghe misere. Sfruttati e di fatto in balia dei datori di lavoro locali, hanno davanti a sé una scelta: tornare indietro o proseguire verso un’altra meta che possa garantire condizioni di vita migliori. Ma una volta che si è partiti per garantire un futuro alla propria famiglia tornare indietro non è un’opzione. Si decide dunque di proseguire, e di tentare la fortuna in un altro posto. È così allora che dagli Emirati Arabi Uniti partono in aereo per arrivare in Libia. Questi spostamenti sono resi possibili dai collegamenti tra le varie agenzie di viaggio che gestiscono il business della tratta di esseri umani. «Queste agenzie sono un’evoluzione del dalal e tramite un sistema tra la legalità del volo e l’illegalità della corruzione e falsificazione di documenti, portano i migranti fino in Libia, a volte passando per la Turchia» dice Etzog. Il migrante paga in media 4000 euro, e gli viene assicurato il viaggio, il pernottamento e un posto di lavoro quando arriverà alla sua meta finale. 

Rispetto agli anni 2020 e 2021 in cui le città con il maggior numero di migranti provenienti dal Bangladesh erano nell’Ovest del paese, una su tutte Tripoli, nel 2022 Benghazi, nell’Est, è al primo posto con oltre 5600 persone presenti. I migranti bengalesi sono il gruppo con maggiori risorse a disposizione grazie ai legami familiari sparsi nel mondo e perciò conviene ai trafficanti mantenere attive le rotte migratorie e fornire i mezzi adeguati per il raggiungimento dell’obiettivo, così da fornire un’offerta costante alla sempre presente domanda. Se i migranti invece non possiedono abbastanza soldi da potersi garantire un posto sulle navi allora il tempo che dovranno restare in Libia aumenterà, con il conseguente aumento dei rischi a cui saranno sottoposti. 

Questo è stato il caso raccontato dalla BBC di alcuni migranti arrivati dal Bangladesh con la prospettiva di lavorare in una fabbrica di Benghazi per poter guadagnare circa 450 euro al mese e poter così inviare soldi alla famiglia. Persuasi e aiutati dai dalal, sono giunti all’inizio del 2020 nell’Est libico per poi essere immediatamente presi dai trafficanti e portati in prigione e alle famiglie è stato chiesto un riscatto. Chi non può pagare il riscatto rischia di subire ulteriori abusi e torture nei centri di detenzione e, nei casi più estremi, morire. Anche una volta pagato il riscatto il migrante non sempre viene liberato, e prima di poter andare viene trattenuto dai suoi sequestratori per lavorare forzatamente in una fabbrica o in uno stabilimento, con con razioni misere di cibo e controllato a vista da guardie armate. 

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Tunisia, il muro della guardia costiera

di Arianna Poletti
Matteo Garavoglia
Editing di Lorenzo Bagnoli

È il 18 giugno, una calda domenica estiva, quando il parcheggio di fronte alla sede dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) di Tunisi, nello spopolato quartiere Les Berges du Lac, viene occupato dalle camionette della polizia tunisina. Da due mesi esatti, 213 richiedenti asilo occupano l’area. Etiopi, eritrei, sudanesi, ivoriani, hanno lasciato i centri d’accoglienza sovraffollati di Sfax, Medenine, Zarzis, nel Sud della Tunisia, e si sono spostati a Tunisi nel tentativo di attirare l’attenzione di media, società civile e autorità sulla loro condizione. Chiedono il reinsediamento in un paese terzo: in Tunisia – raccontano – non c’è futuro. Tanto che, tra quei migranti che da anni rimangono confinati nel Sud del paese, c’è addirittura chi ha ripercorso la strada al contrario, dalla Tunisia alla Libia, dove «provare a ottenere il ricollocamento è comunque più semplice che in Tunisia» .

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Quel giorno, però, la polizia tunisina mette fine alla protesta dei migranti e smantella il sit-in: nel giro di poche ore, la strada si svuota. Accampamento e striscioni scompaiono, ma non il problema. Solo in 37 trovano posto in un centro d’accoglienza. In tre vengono arrestati, gli altri risultano dispersi . Nel giro di pochi giorni, alcuni di loro tornano ad occupare lo spiazzo di fronte alla sede dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), a 700 metri dalla sede dell’Unhcr, accanto a chi è in attesa di un appuntamento per il ritorno volontario assistito ed è costretto ad aspettarlo per strada. «Da mesi chiediamo al governo tunisino di metterci a disposizione nuovi posti letto.

Abbiamo troppe richieste e pochi posti nei centri di transito. La lista d’attesa per il ritorno volontario si allunga di giorno in giorno», racconta un collaboratore dell’Oim.

Rue du Lac Biwa a Tunisi, sede del palazzo dell’Unhcr, dopo le manifestazioni dello scorso 18 giugno. Foto di Arianna Poletti/IrpiMedia

Nonostante le lacune del sistema di accoglienza tunisino siano evidenti fin dall’epoca dello smantellamento del campo di Choucha, evacuato definitivamente solo nel 2017, è alla Tunisia che guarda l’Unione Europea nel tentativo di riprodurre il tanto contestato modello libico. L’obiettivo è delegare in futuro il controllo delle frontiere del Mediterraneo centrale e del Canale di Sicilia alla guardia costiera tunisina e ampliare così The Big Wall, il grande muro che divide il Mediterraneo.

In Tunisia, però, i fondi europei non si limitano a fornire equipaggiamento e mezzi alla guardia costiera del paese nordafricano. Contribuiscono anche all’implementazione delle politiche dei rimpatri. In prima linea c’è l’Italia: dal 2011 il nostro paese moltiplica le espulsioni di migranti di nazionalità tunisina su voli charter verso gli aeroporti di Enfidha e da qualche anno anche di Tabarka. Parallelamente, l’Italia sostiene la Tunisia con progetti di cooperazione internazionale e forniture di tecnologia, mezzi ed equipaggiamenti destinati soprattutto al Ministero dell’Interno e in seconda battuta al Ministero della Difesa di Tunisi. L’obiettivo è sempre lo stesso: evitare nuove partenze con progetti di reinserimento sociale oppure attraverso il rafforzamento delle forze dell’ordine che si occupano di controllo delle frontiere.

Secondo le informazioni raccolte da una delle più importanti ong tunisine che si occupano di diritti civili e di diritti dei migranti, il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (Ftdes), le intercettazioni in mare dall’inizio del 2022 sono state più di 29mila (544 i morti nella traversata, dato aggiornato al 26 ottobre). Il Ftdes ha inoltre osservato che le operazioni della guardia costiera tunisina di recupero dei migranti dal 2020 ad oggi si sono moltiplicate. L’Mrcc di Tunisi, il centro marittimo che coordina le operazioni di ricerca e soccorso, è ormai operativo e funzionante , anche se la Tunisia – a differenza della Libia – non ha ancora comunicato la sua Regione di ricerca e soccorso all’Organizzazione marittima internazionale (Imo). Solo a quel punto un paese rivierasco diventa effettivamente responsabile delle operazioni di salvataggio in una porzione di mare.

Il doppio binario: militarizzazione dei confini e rimpatri

Per identificare questo doppio canale di collaborazione Italia-Tunisia – militarizzazione delle frontiere da un lato, dall’altro rimpatri – IrpiMedia ha ricostruito il percorso dei finanziamenti che l’Italia ha concesso alla Tunisia a partire dal 2020. Il 17 agosto di quell’anno, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e la ministra degli Interni Luciana Lamorgese, accompagnati dai commissari europei Ylva Johansson (Affari interni) e Oliver Varhelyi (Vicinato e allargamento), stringevano la mano al presidente Kais Saied, oggi a capo di un paese senza parlamento, che si avvia verso un modello di governo iper-presidenziale tutt’altro che garante dei diritti dei migranti, che questi si tratti di tunisini o di migranti di nazionalità terza.

Per sostenere le attività di controllo dei frontiere della Tunisia, dopo il vertice dell’estate 2020 la ministra Lamorgese ha promesso a Tunisi 11 milioni di euro. Grazie alle risposte ottenute da ActionAid e IrpiMedia in una serie di richieste di accesso agli atti di inizio 2022 è possibile ricostruire l’infrastruttura finanziaria dalla quale sono passati questi aiuti. Gli 11 milioni annunciati sono stati allocati nel 2020 sul Fondo di premialità per il rimpatrio, strumento istituito l’anno precedente che prima dell’annunciata cooperazione con la Tunisia aveva una dotazione di soli due milioni di euro.

I primi 8 milioni sono stati assegnati al progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia. Nel 2021, il progetto ha ricevuto una seconda tranche di finanziamenti da 7 milioni di euro. Prima della sua finalizzazione, il Ministero degli Esteri e della cooperazione italiana (Maeci) il 20 novembre 2020 ha inviato a Tunisi una nota: «L’acquisto effettivo e la successiva consegna del materiale – si legge – saranno legati ai risultati raggiunti dalle autorità tunisine in materia di riammissioni dei cittadini tunisini che si trovano in una situazione di irregolarità in Italia, così come alla gestione efficace dei flussi migratori irregolari in partenza dalla Tunisia». In cambio di fondi, quindi, l’Italia chiede alla Tunisia un cambio di passo nel Mediterraneo.

Tra 2020 e 2021, sono stati approvati sei progetti del Fondo di Premialità, di cui cinque sulla Tunisia. Il fondo, da decreto, ha quattro aree di intervento molto vaghe, che spaziano dal rafforzamento delle frontiere ai progetti di reintegrazione sociale di chi è stato rimpatriato. La parte più consistente del budget destinato alla Tunisia è stata allocata sul controllo delle frontiere: 19 milioni su 24.

I finanziamenti italiani per il controllo delle frontiere tunisine

La lunga storia delle relazioni bilaterali Italia-Tunisia

L’accordo del 2020 tra Italia e Tunisia è solo l’ultimo in ordine cronologico. I rapporti bilaterali sull’asse Roma-Tunisi sono strutturati e saldi nel tempo. A partire dal 1998, sono state numerose le visite dei nostri rappresentanti dello Stato nella Tunisia autoritaria di Zine El-Abidine Ben Ali, deposto nel 2011 a seguito delle rivolte con cui sono iniziate le Primavere arabe, alle quali sono seguiti i primi accordi. Si tratta di protocolli di intesa che per il loro carattere tecnico-economico non hanno bisogno di ratifica parlamentare. Insieme al protocollo con la Tunisia, nel 1998 in Italia veniva promulgata anche la cosiddetta legge Turco-Napolitano in materia di politica di immigrazione, che ha istituito la prima versione dei centri di detenzione per migranti irregolari in Italia e che ha gettato le basi della politica dei rimpatri in vigore anche oggi.

Malgrado i numerosi aiuti economici di cui la Tunisia ha beneficiato negli anni, i rapporti tra Italia e Tunisia risultano essere sbilanciati a favore di Roma nonostante la teorica reciprocità di questi accordi bilaterali: «Ciascuna parte – si legge nell’accordo del 1998 – s’impegna a riprendere sul proprio territorio, su domanda dell’altra parte e senza formalità, ogni persona che non soddisfa i requisiti di ingresso o di soggiorno applicabili sul territorio della Parte richiedente». In vent’anni di relazioni vengono firmate altre quattro intese: nel 2003, nel 2011, nel 2017 e nel 2020.

IrpiMedia e ActionAid hanno avuto accesso all’integrità dei testi firmati. Nel 2003 veniva firmata un’intesa tra le forze di polizia italiane e tunisine, ma è l’accordo del 5 aprile 2011 tra i ministri dell’Interno Roberto Maroni e Habib Essid a modificare definitivamente i rapporti tra i due paesi. Sono passate poche settimane dalla rivoluzione del 2011 e la caduta di Ben Ali. Dalla Tunisia partono in 22mila nel giro di pochi mesi. Sbarcano a Lampedusa. Sull’isola si forma un campo profughi a cielo aperto. Dopo mesi, l’allora premier Berlusconi propone un accordo per il rimpatrio dei migranti in arrivo dalla Tunisia in cambio di fondi per la cooperazione e equipaggiamento per la guardia costiera tunisina. La nota d’intesa del 5 aprile regola le politiche di rimpatrio con la Tunisia. Sul testo del 2011 si basano le successive trattative sull’aumento dei voli charter verso la Tunisia.

Unops, il nuovo intermediario che si fa carico degli appalti

A implementare il progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia è l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Servizi ed i Progetti (Unops), con cui il Ministero degli affari esteri annuncia di aver sottoscritto un’intesa il 9 dicembre 2020. Da allora, è l’Unops, la cui sede regionale è proprio a Tunisi, a farsi carico della gestione dei fondi e quindi delle gare d’appalto che ne giustificano la spesa.

All’interno della galassia Onu, l’Unops si occupa solitamente della gestione di «progetti di sviluppo sostenibile», si legge sul loro sito. La collaborazione con il Maeci sembra fare eccezione. L’obiettivo della collaborazione Unops-Maeci è infatti la manutenzione e la rimessa in efficienza di sei motovedette già in possesso della Guardia Nazionale tunisina, organismo dipendente dal Ministero dell’interno in Tunisia. I mezzi coinvolti sono sei pattugliatori P350 donati dall’Italia alla Tunisia nel 2014 e ubicati nei porti delle città costiere di Zarzis, Sfax, Sousse, Bizerte e Rades, come confermato da Unops.

Una delle motovedette della guardia costiera tunisina ormeggiata al porto di Zarzis, nella Tunisia meridionale. Foto di Matteo Garavoglia/IrpiMedia
Il pattugliatore GN3505 è una delle sei navi coinvolte nel riammodernamento di alcune componenti, secondo quanto previsto dal progetto gestito da Unops . Foto di Matteo Garavoglia/IrpiMedia

A partecipare al bando per la manutenzione delle sei motovedette tunisine, la cui data di scadenza viene prorogata ben due volte, è un solo cantiere: il Cantiere Navale Vittoria (CNV) di Andria, in provincia di Rovigo. Si tratta dello stesso cantiere che nel 2014 si era già aggiudicato la fornitura di dodici motovedette15 alla Tunisia per un totale di 16,5 milioni di euro, per poi riparare sei di queste nel 2017 incassando, secondo il risultato del bando consultato da ActionAid e IrpiMedia, altri 6,3 milioni di euro . Quattro anni più tardi, nel 2021, Unops stanzia 3,9 milioni di euro per la manutenzione delle stesse motovedette, ma la cifra risulta inferiore a quella proposta dal Cantiere Navale Vittoria, che chiede il doppio . Dopo una serie di negoziazioni, CNV si aggiudica comunque la gara e l’agenzia Onu è costretta a rivedere il budget. Contattato da IrpiMedia, il Cantiere Navale Vittoria preferisce non commentare questi passaggi ed evoca «un accordo di segretezza firmato con Unops».

I mezzi della Cantiere Navale Vittoria in Tunisia

Come si legge dal sito della società, «il fiore all’occhiello del Cantiere Navale Vittoria (CNV) sono le imbarcazioni dedicate alla sicurezza, scelte dalle Polizie e dalla Guardie costiere e di molti Paesi del Mediterraneo». Attivo anche in Libia, è in Tunisia che il CNV ha giocato nel corso degli anni un ruolo di primo piano. Come ha potuto ricostruire IrpiMedia, infatti, è dal 2013 che il Cantiere Navale Vittoria mantiene solidi rapporti con le autorità tunisine in materia di forniture navali e manutenzione, sempre legate alle stesse sei imbarcazioni: GN 3501, 3502, 3503, 3504, 3505 e 3506, anche nominati P350.

Nel 2014, con 16,5 milioni di euro il CNV si aggiudica la fornitura di dodici pattugliatori alla Tunisia, tra cui le sei motovedette sopra citate. Solo tre anni dopo, nel 2017, il Cantiere Navale Vittoria ottiene un appalto da 6.302.501,00 euro del Viminale per la rimessa in efficienza dei sei pattugliatori. Facendo un rapido calcolo, nel giro di otto anni CNV ha incassato dallo Stato italiano 31,5 milioni di euro. La manutenzione viene affidata due volte al cantiere navale che ha fornito i pattugliatori alla Tunisia, ma il paese dispone in realtà di un cantiere navale che si occupa della costruzione e della riparazione di alcune delle motovedette della marina militare tunisina. Si tratta del cantiere SCIN (società di costruzione industriale e navale).

Il budget previsto in un primo momento, a quel punto, non copre più il totale delle spese. Oltre al preventivo salato dei Cantieri Navali Vittoria, infatti, si aggiunge la lista di materiale richiesto all’Italia dal ministero dell’Interno tunisino per un totale di 2,5 milioni di euro (un laboratorio mobile per eseguire test salivari del DNA, cinque minibus per il trasporto del personale, 25 pick-up, due ambulanze, cinque veicoli specializzati per il trasporto di detenuti, 20 binocoli e 20 rilevatori di presenza umana). A novembre 2021, allora, il MAECI decide di aumentare il budget del programma firmato un anno prima con Unops e stanzia altri 7 milioni, per un totale di 15 in due anni.

Con l’arrivo dei nuovi fondi, si sblocca la procedura per la consegna di quanto richiesto dal ministero dell’interno di Tunisi. « In questo momento i milioni messi a disposizione per l’acquisto di equipaggiamenti sono 8,8», risponde però l’agenzia delle Nazioni Unite alla richiesta di chiarimenti di IrpiMedia, dichiarando di aver speso tre volte tanto la cifra inizialmente dichiarata. Non è quindi chiaro quanti dei 15 milioni di euro arrivati in Tunisia siano stati spesi per la manutenzione delle motovedette da parte del Cantiere Navale Vittoria e quanti invece siano stati usati per rifornire il Ministero dell’Interno tunisino.

Le proteste contro i test del DNA

Tra la lista dell’equipaggiamento fornito al paese, compare un laboratorio mobile per i test del DNA, come confermano sia i report interni ottenuti da IrpiMedia, sia un tweet dell’Ambasciata italiana a Tunisi, che il 5 maggio 2022 rende pubblica la consegna «alla polizia scientifica della strumentazione nell’ambito dei progetti di cooperazione migratoria tra Italia e Tunisia». A febbraio 2022, racconta la testata d’inchiesta tunisina Inkyfada, le associazioni locali che operano in ambito migratorio avevano denunciato diversi arresti arbitrari e l’imposizione di test del DNA su diversi studenti subsahariani regolarmente presenti nella capitale nei commissariati di polizia.

«Da oltre un mese subiamo molteplici arresti arbitrari in diverse regioni della Tunisia. […] In commissariato, gli studenti vengono sottoposti a un trattamento umiliante senza conoscere le ragioni di tali arresti. Vengono prelevati loro le impronte digitali e il DNA senza il loro consenso», si legge in un comunicato reso pubblico durante una conferenza stampa dall’Associazione degli Studenti e degli Stagisti Subsahariani in Tunisia (AESAT). A confermare questa pratica a IrpiMedia è uno degli avvocati che ha seguito i casi di alcuni di alcuni subsahariani arrestati arbitrariamente. Contattata per un commento, l’agenzia Onu ha precisato che «il laboratorio servirà per l’identificazione rapida delle vittime di naufragio». Qualche mese più tardi, però, i test del DNA tornano al centro delle polemiche, questa volta a Zarzis. Dopo un naufragio avvenuto a fine settembre, costato la vita a 18 persone, le autorità tunisine hanno seppellito i cadaveri ritrovati in mare senza però procedere all’identificazione dei corpi e di conseguenza senza avvertire nessuno dei familiari. Le autorità locali, spiega Deutsche Welle, si sono giustificate sostenendo in un primo momento che si trattasse di cittadini stranieri. I corpi ritrovati sono stati seppelliti nel Giardino dell’Africa, un cimitero a Zarzis inaugurato lo scorso anno per i migranti senza nome annegati nella traversata. Eppure diverse famiglie avevano denunciato la scomparsa di alcuni parenti partiti il 21 settembre. La rabbia ha cominciato a montare fino al punto in cui le autorità locali hanno dovuto riaprire l’inchiesta, identificando sette persone, tutti tunisini. Gli altri undici, al 27 ottobre, sono ancora dispersi.

In due dei tre report interni sull’implementazione del progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia stilati dall’Unops nel 2020-2021, l’agenzia delle Nazioni Unite si preoccupa del «rischio legato alla reputazione», indicato come «da medio a alto». Il ministero dell’Interno tunisino, controparte di Unops e del MAECI per la riparazione delle motovedette, è infatti accusato di numerose violazioni denunciate dalla società civile locale e internazionale, tra cui gli arresti di massa di giovani manifestanti e difensori dei diritti umani a gennaio 2021. «L’impunità del passato nei confronti di atti di tortura e altri maltrattamenti o dell’uso eccessivo della forza ha contribuito a un ciclo di violazioni che non è ancora finito», denunciava nel 2021 Amnesty International facendo riferimento ad alti responsabili del Ministero dell’Interno ancora in carica, il cui processo non si è mai concluso.

Unops propone quindi di «stilare una valutazione del rischio per garantire che le autorità tunisine non abbiano la tendenza violare gli statuti sulla migrazione internazionale e i diritti umani» ed «evitare comunicazioni pubbliche o interazioni con i media senza autorizzazione preventiva», si legge ancora in due dei tre report . «Unops ha realizzato una valutazione ragionevole in materia di diritti dell’uomo, come richiesto per tutti i progetti delle Nazioni Unite che portano un sostegno alle forze di sicurezza che non fanno parte dell’Onu», ha commentato Unops.

La zona Sar tunisina, un’ambiguità che fa comodo a tutti

Tra il 2011 e il 2022, in materia di controllo delle frontiere e di flussi migratori lo Stato italiano ha allocato alla Tunisia più di 47 milioni di euro , di cui buona parte sono stati spesi per l’invio delle imbarcazioni alla guardia costiera tunisina e la loro rimessa in efficienza. Di questi finanziamenti ha beneficiato, direttamente o indirettamente, il Ministero dell’Interno tunisino, accusato dalle associazioni della società civile non solo di numerosi episodi di violazione dei diritti umani, ma anche di mancanza di trasparenza nella rendicontazione dei fondi. L’unico documento disponibile che giustificherebbe una parte delle spese non risulta attendibile perché in contrasto con i dati ottenuti dalla controparte italiana. Numerose richieste di accesso agli atti da parte delle associazioni tunisine sono rimaste senza risposta, e una verifica dell’effettivo uso dei fondi nel paese risulta quindi complicata.

In più, secondo le informazioni confermate ad IrpiMedia dall’ong che raccoglie le richieste di sos dei migranti in difficoltà, AlarmPhone, a partire dal 2020 il Ministero dell’Interno gestisce solo una piccola parte delle operazioni di soccorso: quelle effettuate in acque territoriali tunisine. A farsi carico dei salvataggi oltre le 12 miglia marine per conto dell’MRCC, il centro marittimo che coordina le operazioni di Search & Rescue, è invece la Marina militare dell’esercito tunisino, che dispone di quattro grandi imbarcazioni francesi ferme nei porti di Monastir, Sfax, Bizerte e Tunisi e di almeno 50 motovedette statunitensi cedute dagli Usa nell’ambito del programma AFRICOM.

A partire dal 2020, da quando Frontex ha intensificato le operazioni aeree in Tunisia gli attori della società civile constatano un cambio di passo: «Prima non ottenevamo risposta dall’MRCC. Dal 2020 invece rispondono alle chiamate e comunicano in inglese», conferma un membro di AlarmPhone. L’MRCC è gestito dal Ministero della Difesa, e proprio la marina militare tunisina, insieme a quella di altri dodici paesi tra cui l’Italia e la Libia, è stata recentemente protagonista delle esercitazioni militari a guida Nato che si sono tenute nel Mediterraneo tra dal 23 maggio al 3 giugno di quest’anno con l’obiettivo di «migliorare gli sforzi che promuovono la sicurezza nel Mar Mediterraneo e nelle acque territoriali delle nazioni nordafricane partecipanti».

Che si tratti della guardia costiera o della marina militare, le operazioni di salvataggio tunisine vengono comunque ancora effettuate in un ambiguo spazio di non-diritto. Da un lato, la Tunisia non dispone ancora di una legge sul diritto d’asilo e continua a criminalizzare la migrazione irregolare. Un migrante di nazionalità non tunisina ha quindi il diritto di richiedere l’asilo nel paese rivolgendosi all’UNCHR, evitando così l’espulsione, ma non avrà diritto di lavorare nel paese, rimanendo ai margini della società.

Dall’altro, la Tunisia non dispone ancora di una Regione di ricerca e soccorso, ovvero di quell’area di competenza in cui in paese è formalmente tenuto a prestare soccorso, anche se opera ormai come se ci fosse, sostiene Romdhane Ben Amor, portavoce del FTDES. «Dal 2020 osserviamo un’intensificazione delle operazioni in mare, sempre più vicine alle coste italiane – continua Romdhane Ben Amor – e tutto fa pensare che si stia procedendo verso una futura dichiarazione della zona SAR da parte della Tunisia». Per poter notificare all’IMO la propria zona SAR, infatti, il governo di Tunisi deve dimostrare di avere un MRCC funzionante e tutto l’equipaggiamento necessario per assicurare operazioni di salvataggio al di là delle proprie acque territoriali. Equipaggiamento che, anche nel caso tunisino, arriva dall’Italia.

Come ha affermato lo stesso ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio, però, l’obiettivo primario per fronteggiare le partenze restano i rimpatri: «Chi arriva in Italia in maniera irregolare non potrà usufruire di alcuna opportunità di regolarizzazione. L’unico esito di un arrivo irregolare è il rimpatrio». Ma tra sovraffollamento dei CPR e sbarchi in aumento – molti migranti, tra l’altro, dichiarano di aver tentato più volte la traversata nonostante il rimpatrio – il sistema rimpatri non funziona come Roma vorrebbe. La Tunisia rappresenta sì la prima nazionalità per numero di rimpatri (il 73,5% del totale), ma nel 2020 e 2021 sono state riportate indietro 3.794 persone a fronte di 28.554 arrivi.

Questo ha portato le autorità nostrane negoziare con la controparte tunisina. Lo schema è sempre lo stesso: finanziamenti alla Tunisia in cambio di procedure semplificate di rimpatrio. Secondo un documento di maggio 2022 della Commissione Europea sulla cooperazione estera in ambito migratorio, visualizzato da IrpiMedia, la nota d’intesa tra Italia e Tunisia potrebbe presto trasformarsi in un vero e proprio accordo di riammissione tra il paese nordafricano e l’Unione Europea, che potrebbe includere non solo i rimpatri dei tunisini, ma anche quelli di migranti di nazionalità terza passati per la Tunisia. “La Commissione è in procinto di lanciare i primi partenariati con i paesi nordafricani, tra cui la Tunisia, la cui attuazione dovrebbe iniziare entro la fine del 2022”, si legge in riferimento a futuri accordi di riammissione.

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Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

di Fabio Papetti e Lorenzo Bagnoli
Ha collaborato Antonella Mautone
In partnership con ActionAid

Dal primo gennaio ai primi di luglio 2022 9.430 migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia. Le «operazioni» sono state 112; negli ultimi cinque mesi del 2021 erano state 108 e negli ultimi cinque mesi del 2020 56. La parola «operazione» in mare può assumere due significati: salvataggio oppure intercettazione. Per i migranti il finale è in ogni caso lo stesso: il rientro in un centro di detenzione della Libia, dove subiscono abusi e torture, fino al prossimo tentativo di traversata. 

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Le foto dell’articolo sono realizzate dalla fotogiornalista Sara Creta, che da anni segue inchieste e reportage sui migranti.

Senza il contributo dell’Italia e di altri paesi europei, la Libia non avrebbe delle forze marittime. L’Italia ha fornito molte navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione; fornisce equipaggiamenti specifici, somministra i corsi di formazione degli equipaggi, guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc). Queste azioni rappresentano i mattoni con i quali l’Italia ha costruito il Grande Muro delle frontiere esterne in Libia, The Big Wall. Con questo nome lo scorso anno ActionAid ha chiamato le politiche di contenimento dei flussi migratori che l’Italia, con il sostegno dell’Unione europea, ha messo in piedi a partire dal 2015; quasi un miliardo di euro che l’Italia si è impegnata a spendere per spingere le frontiere sempre più a Sud, allo scopo di evitare nuove partenze. Quest’anno IrpiMedia ed ActionAid hanno cercato di capire come sono stati spesi i soldi del Muro sulla rotta del Mediterraneo Centrale. I mattoni sono bandi di gara che rispondono a strategie disegnate da convenzioni che spesso non si riescono a ottenere attraverso richieste di accesso agli atti. Le fonti di finanziamento sono sia italiane, sia europee. Non le amministra un’unica cabina di regia. Il risultato è una spesa frammentata su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni implementare i progetti europei. Il processo di finanziamento, di conseguenza, non è trasparente. Da anni molte organizzazioni chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare. A questo si aggiunge anche un lato più politico: senza trasparenza è impossibile anche valutare quanto i finanziamenti per l’esternalizzazione delle frontiere abbiano raggiunto l’obiettivo di ridurre le partenze e stabilizzare la Libia.

Mattone su mattone

La Libia è uno Stato sovrano in punto di diritto, ma nei fatti il controllo delle sue frontiere, il suo esercito e la sua integrità territoriale sono a brandelli. «I gruppi armati libici e i loro leader hanno preso il ruolo che un tempo era di élite politiche e imprenditori corrotti, diventando così uno strumento fondamentale per qualsiasi sviluppo del paese», scrive il ricercatore Emadeddin Badi in un articolo pubblicato dall’Ispi l’8 luglio. Ci sono due governi, uno a Tripoli sostenuto dalle Nazioni Unite e uno a Tobruk, sostenuto dal parlamento libico, che si contendono il potere. Da giugno montano le proteste e si teme una nuova recrudescenza della guerra civile.

Le forze marittime ufficiali, la Guardia Costiera Libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), sono affiliate a Tripoli, rispettivamente al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno. Sono infiltrate da alcune milizie, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbandieri di gasolio. La brigata è responsabile della Gcl di Zawiya, ovest della Libia, dove il 30 giugno è stato aperto una nuova Stazione di sicurezza costiera. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio. A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno. Il picco più alto di mortalità è stato raggiunto nel 2019 quando un migrante ogni dieci che prendeva il mare è annegato o è finito disperso. Nonostante le condizioni della Libia e i risultati ancora molto al di sotto delle aspettative, ai partner italiani ed europei è chiesto di spendere sempre di più: la lista delle richieste delle forze armate libiche aumenta. Il ricatto costante è che senza il filtro dei libici l’Europa verrà invasa dai migranti subsahariani. È la logica che alimenta la costruzione di The Big Wall, mattone dopo mattone.

L’opacità dei flussi di denaro

L’instabilità permanente della Libia è stata la principale causa dei ritardi nella realizzazione dei progetti per controllare le frontiere terrestri e marittime della Libia. Il Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha ottenuto alcuni dei risultati previsti. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo. Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, l’Italia ha speso 27,2 milioni di euro di fondi europei dedicati a questo progetto. La dotazione prevista è di circa 46 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito circa 2 milioni. Il ministero dell’Interno è l’ente attuatore di Sibmmil, che rappresenta uno dei principali mattoni sui quali si regge The Big Wall.

Il cimitero del Mediterraneo centrale. A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno. Il picco più alto di mortalità è stato raggiunto nel 2019 quando un migrante ogni dieci che prendeva il mare è annegato o è finito disperso.

Sibmmil alle frontiere terrestri: l’accordo con l’Oim

Tra i beneficiari del fondo c’è anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), una delle due agenzie delle Nazioni Unite che si occupa di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. È tra le poche che riescono ad accedere – con grande difficoltà – ai centri di detenzione libici. Nell’ambito del progetto Sibmmil, ha ricevuto oltre 12 milioni di euro a seguito di un accordo triangolare con Commissione europea e Ministero dell’Interno italiano. Spiegano dall’agenzia delle Nazioni Unite che non si tratta di accordi nuovi dato che in Libia dal 2006 sono utilizzati per altri progetti di cooperazione. La convenzione tra Oim e il Viminale, ottenuta dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) con una richiesta di accesso agli atti, prevede per l’Oim il coinvolgimento soprattutto nell’assistenza medica dei migranti che arrivano dalle frontiere desertiche meridionali. L’assistenza e la protezione sono proprio due delle principali missioni dell’Oim. L’area del Sud è dove il progetto di costruzione dei confini libici è più indietro.

Tra le azioni richieste all’agenzia delle Nazioni Unite c’è anche «l’effettiva verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani e quindi non possano essere ritenuti affidabili e credibili nella promozione e nell’applicazione degli standard internazionali». L’azione sembra una diretta conseguenza delle rivelazioni del 2019 di Avvenire: il quotidiano ha scoperto che tra i guardacoste libici che hanno partecipato ai percorsi formazione in Italia c’era anche Adel Rahman al-Milad detto Bija, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio (link pezzi IrpiMedia).

Asgi non ha tuttavia potuto avere accesso agli allegati che contengono i dettagli della convenzione Oim-Viminale perché rientrano «nel più ampio quadro delle attività e dei rapporti di cooperazione internazionale di Polizia con la Libia» e di conseguenza «la completa ostensione consentirebbe a chiunque di venirne a conoscenza, con evidente

compromissione della riservatezza necessaria in materia di cooperazione di Polizia e di contrasto all’immigrazione irregolare; riservatezza questa sulla quale, peraltro, si fondano i rapporti di fiducia intercorrenti tra l’Italia con i Paesi Terzi, ed in particolare con le autorità libiche».

Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne oltre quattro-quinti, circa 22 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione. Le principali voci di spesa sono 8,6 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,8 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container. Il bando di gara di dieci di questi prevede che otto di loro siano grigi, lunghi dodici metri, larghi 2,5, alti quasi tre. Uno di questi, prosegue il bando, è suddiviso in tre stanze: una sala riunioni da un lato e dall’altro quattro scrivanie, con un bagno. È la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare, una delle forniture fondamentali per rendere le forze marittime libiche indipendenti. Almeno, secondo quanto previsto dal progetto europeo.

Milioni di euro per il Big Wall. Dei 44,5 milioni di euro stanziati dall’Europa, l’Italia ne ha gestiti più di 32. Di questi, ne abbiamo tracciati circa 27

Il supporto a Gacs e Guardia costiera

Sia la Gacs, sia la Gcl hanno «limitate capacità operative», si legge nel rapporto di monitoraggio sulle attività della marina libica curato dai militari della missione Irini lo scorso dicembre, un documento confidenziale.

La Gacs è una forza di polizia che fino al 2019 circa ha mandato di operare entro le acque territoriali libiche. Nel 2020 ha partecipato a 14 operazioni di recupero in mare ed è stata coinvolta in un progetto pilota ancora in corso con Frontex e il ministero dell’Interno italiano per rafforzare la loro capacità di salvataggio. L’intento è inserirla all’interno di un sistema di monitoraggio delle frontiere marittime all’interno del quale la Gacs possa avere uno scambio di informazioni con le altre polizie di frontiera europee. Lo scopo va anche oltre l’immigrazione: la Gacs dovrebbe contribuire a fermare anche navi che muovono prodotti di contrabbando, pescatori che non rispettano le regole, carichi di armi. L’Italia ha fornito alla Gacs sette motovedette tra i 28 e i 35 metri e un’altra ventina di imbarcazioni tra i nove e i dodici metri, per una spesa complessiva di oltre 9 milioni di euro.

La Guardia costiera, invece, è la forza marittima che dipende dal ministero della Difesa. Secondo il report di monitoraggio della missione europea Irini – punto di contatto dei militari sia per la formazione, sia per lo scambio di informazioni – la Gcl e la Marina Militare dispongono di 26 navi, 17 delle quali sono state donate o riparate dall’Italia. La spesa complessiva, tra soldi già spesi e da spendere nell’arco del 2022, supera i 3 milioni di euro, dal 2018 a oggi. Le motovedette Ubari, Ras Al Jadar, Sabratha sono state protagoniste di scontri con le ong o di violenze sui migranti.

Un video promozionale della Gacs pubblicato su Youtube l’8 giugno mostra le motovedette cedute dagli italiani anche al loro interno: i loghi del Cantiere Navale Vittoria, i monitor, le bussole elettroniche e le bussole satellitari Furuno, i sistemi di navigazione, tutto è stato fornito alla Libia attraverso gare d’appalto bandite dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza. Nel video, il direttore della Gacs Al-Bashir Bannour dichiara: «Ringraziamo i nostri partner italiani per sostenerci da anni con la costruzione, la fornitura di pezzi di ricambio, di manutenzione e la formazione dei lavoratori». Il video esplicita il ricatto delle forze marittime libiche all’Europa: «Secondo le stime ufficiali il numero dei migranti è raddoppiato – spiega la voce narrante – e la Gacs non ha la forza per ridurre gli sbarchi ma può combattere i trafficanti». Più avanti spiega che la possibilità di contrastare il fenomeno è condizionata dalla mancanza di mezzi «che limita l’efficacia delle forze di sicurezza costiere». «Il Ministero dell’Interno – prosegue il video – spera che queste nuove navi aiutino ad aumentare la capacità degli equipaggi» grazie a «nuovi device» e «sistemi di propulsione per affrontare le condizioni in alto mare».

Cosa sappiamo del centro di coordinamento dei salvataggi

Il 2 dicembre 2021, la nave della Marina Militare San Giorgio ha ormeggiato alla base di Abu Sitta, centro operativo della Guardia costiera libica, per consegnare dieci container. Le casse mobili sono abitabili: servono per la creazione del centro di coordinamento dei salvataggi e di una sorta di accampamento. Il centro di coordinamento, infatti si potrà spostare. L’Unione Europea sta valutando la possibilità di finanziare altri due Mrcc fissi, uno in Libia e l’altro in Tunisia. In questo modo si avrebbe una struttura permanente a coprire il tratto di costa dove si è registrato il più alto numero di partenze, quello da Tunisi a Tripoli, che è anche la costa più vicina all’Italia, e uno più leggero che si potrebbe spostare. Infatti dalla seconda metà del 2021 il trend vede in crescita le partenze anche dall’enorme tratto di costa che si stende da Tripoli all’Egitto.

La Marina Militare ha solo confermato di aver preso parte alla missione Sibmmil per la realizzazione dell’Mrcc ma non ha fornito ulteriori chiarimenti rispetto alla messa a terra dei container (di cui quattro saranno adibiti ad alloggi, due a uffici, uno a cucina, uno a cella frigo, uno a generatore e uno a ufficio del centro di coordinamento).

Attraverso le immagini satellitari è però possibile constatare che tra dicembre 2021 e febbraio 2022 nel grande piazzale adiacente all’edificio dove ha sede il Ministero della Difesa, alla base navale di Abu Sutta, sono comparsi sei nuovi container di dimensioni compatibili con le casse mobili oggetto dell’appalto della Marina Militare. Le strutture formano una sorta di accampamento, insieme ad altri tre container che già erano nel porto di Abu Sitta. Non è possibile però stabilire con esattezza quale sia la loro funzione. Di certo insieme ai container sono arrivate anche delle apparecchiature radio e radar fornite dalle aziende italiane Gem Elettronica srl e Elman srl. Entrambe non hanno voluto commentare alle nostre richieste di chiarimento sull’implementazione del Mrcc. Secondo il disciplinare di gara della Marina Militare, per il sistema di navigazione elettronico in tempo reale Ecdis, obbligatorio in ogni base navale dal 2012, è prevista la possibilità di «integrazione ed interfacciamento con il sensore radar GEM già installato a Tripoli presso la base di Abu Sitta, con vincolo di distanza massima sensore-container inferiore ad 1 Km, con fornitura del collegamento in fibra ottica necessario». Questo significa che la base di Abu Sitta rientra tra le possibili location del container. Gem Elettronica, di proprietà al 30% Leonardo spa, è stata coinvolta nella fornitura di radar per le frontiere terrestri di Tripoli già dal 2013. Elman srl nel maggio 2021 ha pubblicato sul proprio sito un comunicato in cui annunciava la sua partecipazione al progetto per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi in Libia.

L’europarlamentare della Die Linke Özlem Demirel ha chiesto con un‘interrogazione l’esatta localizzazione del centro di coordinamento dei soccorsi di Tripoli. Ad aprile ha ricevuto questa risposta dal Commissario europeo per l’allargamento e le politiche di vicinato Oliver Varhelyi: «Al momento stiamo discutendo con le autorità libiche per identificare il luogo più adatto per l’Mrcc. Per ragioni di sicurezza non è possibile fornire informazioni sull’esatta localizzazione dell’Mrcc». La localizzazione di centro di soccorso normalmente è consultabile nella banca dati mondiale Search and rescue contact, anche per paesi in situazioni molto instabili, come la Siria. Per la Libia però la casella delle coordinate geografiche è vuota. Sul mistero del Mrcc di Tripoli restano quindi due certezze: primo, l’arrivo delle casse mobili nella zona indicata come una possibile sede del centro di soccorso – Abu Sitta – è contestuale all’implementazione del progetto Sibmmil; secondo, rispetto al 2019 la situazione del centro di coordinamento dei migranti è molto cambiata, per quanto ancora il livello di indipendenza dei libici non sia soddisfacente per i partner europei.

L’altro muro: fondi europei senza trasparenza

Durante la raccolta di informazioni e dati, IrpiMedia ha chiesto più volte accesso alle informazioni riguardanti gli sviluppi del Mrcc. Le risposte o non sono arrivate, o è stato risposto che «per motivi di sicurezza» certe informazioni non possono essere rese pubbliche. I fondi europei dedicati all’Africa «sono al di fuori del controllo del parlamento europeo», spiegano la parlamentare europea Özlem Demirel e la sua assistente Ota Jaksch. Il parlamento riceve un report annuale, un file che si può trovare facendo una semplice ricerca su internet, e le informazioni contenute non sono specifiche di ogni operazione o progetto. Inoltre, non vengono menzionati i beneficiari di tali fondi. «La commissione stende il programma del fondo senza chiedere ai parlamentari di esprimere un parere – continua Jaksch -. Ciò che il fondo segue sono gli interessi che vogliono raggiungere i singoli stati membri, e questo era così fin dall’inizio». L’unico strumento a disposizione dei parlamentari per chiedere maggiori informazioni alla Commissione e al Consiglio sono le interrogazioni, «ma hanno un limite di 200 parole e di tre domande massimo. Noi dobbiamo già sapere qualcosa per conto nostro e poi solo allora possiamo provare a chiedere qualcosa e sperare di avere una risposta», concludono Jaksch e Demirel.

Coordinamenti per procura

«La marina militare italiana svolg(e) di fatto le funzioni di centro decisionale della c. d. Guardia Costiera libica”» e di fatto è «il reale centro operativo di comando». Questa annotazione sull’inesistenza di un centro di coordinamento dei soccorsi in mare in Libia proviene dal dispositivo di archiviazione di Mare Jonio, nave della ong Mediterranea. L’ accusa all’ong – favoreggiamento dell’immigrazione irregolare – è stata archiviata a gennaio 2022, su richiesta della stessa procura. In quella circostanza era stata dimostrata la dipendenza della Libia dall’Italia in termini di coordinamento delle operazioni di soccorso in mare

Secondo Felix Weiss, portavoce della ong Sea Watch, almeno fino al 2020 «quando contattavamo le imbarcazioni libiche in mare per avvertirle di un caso di barcone in difficoltà in mare, noi parlavamo in inglese, ma loro non capivano e non ci rispondevano». Le comunicazioni erano difficili anche quando si tentava di chiamare il Joint Rescue Coordination Centre (Jrcc) libico. Questo tipo di struttura coordina sia interventi di salvataggio via mare, sia via aerea e secondo diverse fonti avrebbe sede all’aeroporto di Mitiga. Tutt’ora è un mistero la sua esatta collocazione e il modo in cui si interfaccia con il centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare che l’Italia sta realizzando in Libia attraverso Sibmmil.

Il Jrcc di Mitiga tra il 2019 e il 2022 ha fornito dieci caselle email con le quali comunicare e almeno sei numeri di telefono. Nessun risultato fino almeno alla fine del 2021, quando le ong hanno cominciato a notare qualche cambiamento: qualche conversazione è avvenuta, qualche risposta è stata fornita anche in inglese. Non solo maggiore comunicazione, anche maggiore competenza marittima: se prima «chi pilotava le imbarcazioni libiche quasi non sapeva leggere le coordinate, adesso la situazione è cambiata e abbiamo riscontrato una maggior efficienza», prosegue Weiss.

Tra le fonti di informazione delle autorità libiche, a partire dal 2017 ci sono anche i droni di Frontex, l’agenzia europea di pattugliamento delle frontiere. Ci sono diversi bandi che hanno rafforzato la flotta di velivoli senza piloti necessari al monitoraggio delle frontiere esterne l’ultimo dei quali, chiuso nel 2021, aveva un valore di 101,5 milioni di euro. Nel 2020 il segretario Josep Borrell ha spiegato rispondendo a un’interrogazione parlamentare che «non ci sono scambi di informazioni operative tra Frontex e la Guardia costiera libica» ma all’interno di un progetto di monitoraggio dei confini esterni tra il 2017 e il novembre 2019 sono state segnalate a diverse autorità di paesi confinanti- incluse quelle libiche – 42 imbarcazioni in difficoltà.

Tutto questo fa pensare a un parziale successo del progetto dell’UE co-finanziato dall’Italia. In realtà però i libici non perseguono solamente gli obiettivi che interessano all’Italia e all’Europa. Infatti non necessariamente coordinano delle operazioni di salvataggio: «Non ci forniscono più informazioni su ciò che succede in mare», afferma Juan Matias Gil, capo missione di Medici Senza Frontiere (Msf). L’ong infatti viene a conoscenza dei casi di natanti in difficoltà sempre da fonti che non sono il centro di coordinamento libico, anche quando sono i più vicini al potenziale naufragio. «Questo tipo di atteggiamento crea un rischio ulteriore per chi si mette in mare con navi di fortuna. Avvertire solo i diversi centri di coordinamento e non le navi in zona ha causato già ritardi in altre operazioni dove le imbarcazioni che dovevano essere salvate si sono ribaltate», aggiunge Weiss di Sea Watch.

Il coordinamento tra forze marittime libiche è ancora un grosso punto di domanda. Questo si ripercuote anche sulla loro capacità di intervento: «Su otto operazioni di ricerca e soccorso, noi arriviamo prima in almeno cinque casi», stima Gil di Msf. La mancanza di comunicazione con le navi che stanno per mare è endemica: le ong riescono solo in rare occasioni a ottenere una risposta dalle motovedette che agiscono sul posto o dal centro di coordinamento: «Ogni volta non sappiamo se arriveremo sul posto prima noi o prima loro», conclude Gil.

L’aumento delle capacità d’intervento, d’altro canto, è dimostrato dai casi di sconfinamento delle navi libiche nella Regione di ricerca e salvataggio di responsabilità maltese. Sia Mediterranea, sia Sea Watch hanno raccolto diversi casi a partire dall’ottobre 2019. Uno dei più recenti è avvenuto ad aprile: le unità navali libiche sono entrate di oltre 25 miglia nautiche nelle acque di competenza maltese. Le ong escludono che sia solo uno sbaglio, considerato il fatto che le unità libiche ricevono costante supporto logistico dai droni che Frontex usa quotidianamente.

Quando lo stato sragiona

Esiste uno schema ricorrente nella cooperazione tra paesi europei e paesi governati da regimi autoritari oppure da esecutivi molto deboli. C’è spesso una “ragion di Stato” che spinge a stringere accordi anche quando è difficile capire chi è davvero l’interlocutore e quali siano i suoi obiettivi. Ci sono casi, come quello svelato dall’inchiesta di Disclose intitolata Egypt Papers, in cui alla fine ci sono pubblici ufficiali dello Stato che contribuiscono a rivelare documenti top secret che dimostrano la discrepanza tra l’obiettivo dei francesi e del loro partner. In quel caso si trattava dell’Egitto, con il quale la Francia collabora in una missione segreta, Operazione Sirli, che nei piani di Parigi avrebbe dovuto sconfiggere il terrorosimo, nei piani de Il Cairo è servita per eliminare contrabbandieri e nemici politici. La situazione tra Italia e Libia mostra qualche analogia e diverse differenze.

La prima riguarda i numeri: i sostenitori della cooperazione con le forze marittime libiche possono affermare che l’efficienza delle forze marittime libiche sia aumentata. Tuttavia la “ragion di Stato” vacilla se gli stessi militari formati dall’Europa sono accusati di traffico e contrabbando, oppure se non è nemmeno chiaro come funzioni la catena di comando tra l’est e l’ovest del paese. I migranti recentemente partono spesso dall’Est del paese e sfrutteranno in ogni circostanza le debolezze del sistema di controllo libico per tentare di fuggire dalla drammatica condizione dei centri di detenzione. Senza una Libia davvero pacificata, qualunque progetto securitario è destinato a fallire.

 La seconda differenza tra i rapporti Francia-Egitto e Italia-Libia sta nel fatto che nel primo caso ci sono stati ufficiali che hanno reso pubblici documenti ufficiali che fornissero qualche elemento di contesto sull’andamento della cooperazione, mentre in Italia c’è il massimo riserbo. Per sentire opinioni contrarie bisogna guardare al passato e al contesto europeo.

Nel 2017, quando la Gran Bretagna era ancora parte dell’Unione europea, i parlamentari della Camera dei Lord hanno prodotto un report in cui hanno definito la missione Sophia, quella che nel 2020 è diventata Irini, «fallita». Il documento sottolineava che la missione europea di sostegno alla creazione di un sistema di frontiere integrato, Eubam, non aveva nel proprio mandato combattere l’immigrazione irregolare, che per gli inglesi era invece l’obiettivo principale della loro partecipazione. Definiva poi «una grande sfida» formare una guardia costiera rispettosa dei diritti umani. Il punto è vero oggi quanto allora: a fine marzo 2022 la Germania ha deciso di non partecipare più ai corsi di addestramento dei libici a causa del «comportamento inaccettabile» di questi ultimi.

Se dal punto di vista giuridico la Libia è nel pieno controllo delle sue frontiere di mare e di terra, nei fatti questo controllo si vede solo a tratti sul fronte marittimo, quello terrestre è ancora del tutto fuori controllo. In mare, non c’è un vero interesse per la gestione delle operazioni di salvataggio, ma gli strumenti tecnologici sono impiegati dalle diverse componenti delle forze marittime libiche con scopi diversi, anche in una logica di cooperazione interna. Secondo Mark Micallef, analista di Gitoc esperto di Libia intervistato nell’ambito dell’inchiesta, stanno anche cercando di progredire nelle loro capacità di ricerca e soccorso, ma il discorso non si applica alle forze marittime libiche nel loro complesso. Eppure la spesa per l’esternalizzazione delle frontiere in Libia continua senza tregua.

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Le migrazioni climatiche. Rischi e sfide per le politiche di adattamento

Le migrazioni e i cambiamenti climatici stanno influenzando in modo determinante la geopolitica del XXI secolo.
Nonostante le politiche pubbliche li trattino ancora come fenomeni distinti, in realtà sono questioni fortemente interconnesse e la natura di tali connessioni è oggetto di crescente attenzione sia in ambito accademico che nei fora politici internazionali come, ad esempio, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) che si riunirà a Glasgow in Scozia in occasione di COP26 e che ha istituto una specifica Task Force sugli sfollamenti e sulla mobilità determinati dagli effetti ambientali dei cambiamenti climatici.
In un mondo oramai globalizzato, entrambi questi fenomeni richiedono una risposta sia a livello nazionale sia internazionale che chiama in causa la sovranità degli Stati, la giustizia sociale e i Diritti Umani. Queste pagine hanno l’obiettivo, da una prospettiva di giustizia climatica, di contribuire al dibattito sull’impatto che i cambiamenti climatici hanno sulle migrazioni, e sul potenziale contributo che queste ultime possono dare ai processi di adattamento in chiave di risposta agli effetti negativi dell’attuale crisi climatica.

The Big Wall

Complice la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, la migrazione è diventata una priorità dell’agenda politica europea e dei sui Stati membri che hanno portato avanti strategie e programmi volti al contrasto dell’immigrazione irregolare verso il vecchio continente.  Il framework strategico di riferimento è quello dell’esternalizzazione delle frontiere, ovvero un complesso di strumenti finanziari e non, mirati al controllo remoto dei flussi migratori nei paesi di origine e transito. A partire dal 2015, l’Italia ha giocato un ruolo fondamentale all’interno di questa strategia, mettendo in campo un complesso e oneroso sistema di relazioni, in particolare con i Paesi situati lungo la rotta del Mediterraneo centrale (Niger, Sudan, Libia, ma anche Tunisia per la sua vicinanza geografica con il nostro Paese) alimentato da ingenti risorse di finanza pubblica. ActionAid ha provato a quantificare l’ammontare complessivo di queste risorse e a quali ambiti di intervento sono state destinate. Nonostante, infatti, esistano stime parziali, focalizzate su specifici settori e Paesi, non sono disponibili al momento dati ufficiali che raccolgano, organizzino e rendano accessibili le informazioni sulla distribuzione e l’ammontare complessivo di queste risorse pubbliche: miliardi di euro destinati alla costruzione del “grande muro” a difesa della fortezza Europa. 

Come li aiutiamo a tornarsene a casa loro

Le politiche migratorie degli ultimi anni in ambito europeo hanno contribuito a ridurre la dimensione del ritorno in quella del rimpatrio, essendo quest’ultima centrale dell’agenda europea di contrasto alla cosiddetta immigrazione irregolare. Con l’obiettivo di contestualizzare la riflessione sui ritorni, le politiche sui rimpatri e il loro nesso con lo sviluppo, in questo rapporto è stato preso in considerazione il caso del Gambia: un paese dell’Africa Occidentale che negli ultimi anni ha coperto una quota rilevante dei flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo centrale.

Il compromesso impossibile. Gestione e utilizzo delle risorse del Fondo per l’Africa.

Il Fondo per l’Africa, istituito con la Legge di Bilancio 2017, art. 1 comma 621 con una dotazione finanziaria di 200 milioni di euro, aggiuntivi a quelli previsti per le attività ordinarie di cooperazione allo sviluppo, ha l’obiettivo di avviare “interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i paesi africani di importanza prioritaria per le rotte migratorie”. A un anno dalla sua nascita sono numerose le criticità emerse, che non hanno fatto altro che confermare i timori che il terzo settore fin dagli inizi aveva manifestato. Ad esempio, la commistione fra attività di sviluppo e attività di contrasto alla migrazione di certo non facilita il rilancio di una nuova narrazione dello sviluppo e delle migrazioni, basata sui concetti di solidarietà e ruolo positivo del fenomeno migratorio. E allo stesso tempo questa sovrapposizione presenta le attività di cooperazione deliberate sul Fondo per l’Africa come un frutto della semplificazione “più sviluppo = meno migrazioni”.

Mondi Connessi

La migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e la sorte delle donne rimpatriate. La presente ricerca si focalizza sull’analisi della migrazione femminile nigeriana in Italia, con una particolare attenzione alla tratta di esseri umani ai fini dello sfruttamento sessuale. Quest’ultima rappresenta un fenomeno dalle dinamiche complesse e mutevoli, spesso sommerso e reso ancora più invisibile dalle politiche migratorie attuate dai governi, che più che alla tutela dei diritti umani si focalizzano sulla protezione della “Fortezza Europa”.

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