di Arianna Poletti
Matteo Garavoglia
Editing di Lorenzo Bagnoli
È il 18 giugno, una calda domenica estiva, quando il parcheggio di fronte alla sede dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) di Tunisi, nello spopolato quartiere Les Berges du Lac, viene occupato dalle camionette della polizia tunisina. Da due mesi esatti, 213 richiedenti asilo occupano l’area. Etiopi, eritrei, sudanesi, ivoriani, hanno lasciato i centri d’accoglienza sovraffollati di Sfax, Medenine, Zarzis, nel Sud della Tunisia, e si sono spostati a Tunisi nel tentativo di attirare l’attenzione di media, società civile e autorità sulla loro condizione. Chiedono il reinsediamento in un paese terzo: in Tunisia – raccontano – non c’è futuro. Tanto che, tra quei migranti che da anni rimangono confinati nel Sud del paese, c’è addirittura chi ha ripercorso la strada al contrario, dalla Tunisia alla Libia, dove «provare a ottenere il ricollocamento è comunque più semplice che in Tunisia» .
Il progetto The Big Wall
Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Quel giorno, però, la polizia tunisina mette fine alla protesta dei migranti e smantella il sit-in: nel giro di poche ore, la strada si svuota. Accampamento e striscioni scompaiono, ma non il problema. Solo in 37 trovano posto in un centro d’accoglienza. In tre vengono arrestati, gli altri risultano dispersi . Nel giro di pochi giorni, alcuni di loro tornano ad occupare lo spiazzo di fronte alla sede dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), a 700 metri dalla sede dell’Unhcr, accanto a chi è in attesa di un appuntamento per il ritorno volontario assistito ed è costretto ad aspettarlo per strada. «Da mesi chiediamo al governo tunisino di metterci a disposizione nuovi posti letto.
Abbiamo troppe richieste e pochi posti nei centri di transito. La lista d’attesa per il ritorno volontario si allunga di giorno in giorno», racconta un collaboratore dell’Oim.

Nonostante le lacune del sistema di accoglienza tunisino siano evidenti fin dall’epoca dello smantellamento del campo di Choucha, evacuato definitivamente solo nel 2017, è alla Tunisia che guarda l’Unione Europea nel tentativo di riprodurre il tanto contestato modello libico. L’obiettivo è delegare in futuro il controllo delle frontiere del Mediterraneo centrale e del Canale di Sicilia alla guardia costiera tunisina e ampliare così The Big Wall, il grande muro che divide il Mediterraneo.
In Tunisia, però, i fondi europei non si limitano a fornire equipaggiamento e mezzi alla guardia costiera del paese nordafricano. Contribuiscono anche all’implementazione delle politiche dei rimpatri. In prima linea c’è l’Italia: dal 2011 il nostro paese moltiplica le espulsioni di migranti di nazionalità tunisina su voli charter verso gli aeroporti di Enfidha e da qualche anno anche di Tabarka. Parallelamente, l’Italia sostiene la Tunisia con progetti di cooperazione internazionale e forniture di tecnologia, mezzi ed equipaggiamenti destinati soprattutto al Ministero dell’Interno e in seconda battuta al Ministero della Difesa di Tunisi. L’obiettivo è sempre lo stesso: evitare nuove partenze con progetti di reinserimento sociale oppure attraverso il rafforzamento delle forze dell’ordine che si occupano di controllo delle frontiere.
Secondo le informazioni raccolte da una delle più importanti ong tunisine che si occupano di diritti civili e di diritti dei migranti, il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (Ftdes), le intercettazioni in mare dall’inizio del 2022 sono state più di 29mila (544 i morti nella traversata, dato aggiornato al 26 ottobre). Il Ftdes ha inoltre osservato che le operazioni della guardia costiera tunisina di recupero dei migranti dal 2020 ad oggi si sono moltiplicate. L’Mrcc di Tunisi, il centro marittimo che coordina le operazioni di ricerca e soccorso, è ormai operativo e funzionante , anche se la Tunisia – a differenza della Libia – non ha ancora comunicato la sua Regione di ricerca e soccorso all’Organizzazione marittima internazionale (Imo). Solo a quel punto un paese rivierasco diventa effettivamente responsabile delle operazioni di salvataggio in una porzione di mare.
Il doppio binario: militarizzazione dei confini e rimpatri
Per identificare questo doppio canale di collaborazione Italia-Tunisia – militarizzazione delle frontiere da un lato, dall’altro rimpatri – IrpiMedia ha ricostruito il percorso dei finanziamenti che l’Italia ha concesso alla Tunisia a partire dal 2020. Il 17 agosto di quell’anno, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e la ministra degli Interni Luciana Lamorgese, accompagnati dai commissari europei Ylva Johansson (Affari interni) e Oliver Varhelyi (Vicinato e allargamento), stringevano la mano al presidente Kais Saied, oggi a capo di un paese senza parlamento, che si avvia verso un modello di governo iper-presidenziale tutt’altro che garante dei diritti dei migranti, che questi si tratti di tunisini o di migranti di nazionalità terza.
Per sostenere le attività di controllo dei frontiere della Tunisia, dopo il vertice dell’estate 2020 la ministra Lamorgese ha promesso a Tunisi 11 milioni di euro. Grazie alle risposte ottenute da ActionAid e IrpiMedia in una serie di richieste di accesso agli atti di inizio 2022 è possibile ricostruire l’infrastruttura finanziaria dalla quale sono passati questi aiuti. Gli 11 milioni annunciati sono stati allocati nel 2020 sul Fondo di premialità per il rimpatrio, strumento istituito l’anno precedente che prima dell’annunciata cooperazione con la Tunisia aveva una dotazione di soli due milioni di euro.
I primi 8 milioni sono stati assegnati al progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia. Nel 2021, il progetto ha ricevuto una seconda tranche di finanziamenti da 7 milioni di euro. Prima della sua finalizzazione, il Ministero degli Esteri e della cooperazione italiana (Maeci) il 20 novembre 2020 ha inviato a Tunisi una nota: «L’acquisto effettivo e la successiva consegna del materiale – si legge – saranno legati ai risultati raggiunti dalle autorità tunisine in materia di riammissioni dei cittadini tunisini che si trovano in una situazione di irregolarità in Italia, così come alla gestione efficace dei flussi migratori irregolari in partenza dalla Tunisia». In cambio di fondi, quindi, l’Italia chiede alla Tunisia un cambio di passo nel Mediterraneo.
Tra 2020 e 2021, sono stati approvati sei progetti del Fondo di Premialità, di cui cinque sulla Tunisia. Il fondo, da decreto, ha quattro aree di intervento molto vaghe, che spaziano dal rafforzamento delle frontiere ai progetti di reintegrazione sociale di chi è stato rimpatriato. La parte più consistente del budget destinato alla Tunisia è stata allocata sul controllo delle frontiere: 19 milioni su 24.

La lunga storia delle relazioni bilaterali Italia-Tunisia
L’accordo del 2020 tra Italia e Tunisia è solo l’ultimo in ordine cronologico. I rapporti bilaterali sull’asse Roma-Tunisi sono strutturati e saldi nel tempo. A partire dal 1998, sono state numerose le visite dei nostri rappresentanti dello Stato nella Tunisia autoritaria di Zine El-Abidine Ben Ali, deposto nel 2011 a seguito delle rivolte con cui sono iniziate le Primavere arabe, alle quali sono seguiti i primi accordi. Si tratta di protocolli di intesa che per il loro carattere tecnico-economico non hanno bisogno di ratifica parlamentare. Insieme al protocollo con la Tunisia, nel 1998 in Italia veniva promulgata anche la cosiddetta legge Turco-Napolitano in materia di politica di immigrazione, che ha istituito la prima versione dei centri di detenzione per migranti irregolari in Italia e che ha gettato le basi della politica dei rimpatri in vigore anche oggi.
Malgrado i numerosi aiuti economici di cui la Tunisia ha beneficiato negli anni, i rapporti tra Italia e Tunisia risultano essere sbilanciati a favore di Roma nonostante la teorica reciprocità di questi accordi bilaterali: «Ciascuna parte – si legge nell’accordo del 1998 – s’impegna a riprendere sul proprio territorio, su domanda dell’altra parte e senza formalità, ogni persona che non soddisfa i requisiti di ingresso o di soggiorno applicabili sul territorio della Parte richiedente». In vent’anni di relazioni vengono firmate altre quattro intese: nel 2003, nel 2011, nel 2017 e nel 2020.
IrpiMedia e ActionAid hanno avuto accesso all’integrità dei testi firmati. Nel 2003 veniva firmata un’intesa tra le forze di polizia italiane e tunisine, ma è l’accordo del 5 aprile 2011 tra i ministri dell’Interno Roberto Maroni e Habib Essid a modificare definitivamente i rapporti tra i due paesi. Sono passate poche settimane dalla rivoluzione del 2011 e la caduta di Ben Ali. Dalla Tunisia partono in 22mila nel giro di pochi mesi. Sbarcano a Lampedusa. Sull’isola si forma un campo profughi a cielo aperto. Dopo mesi, l’allora premier Berlusconi propone un accordo per il rimpatrio dei migranti in arrivo dalla Tunisia in cambio di fondi per la cooperazione e equipaggiamento per la guardia costiera tunisina. La nota d’intesa del 5 aprile regola le politiche di rimpatrio con la Tunisia. Sul testo del 2011 si basano le successive trattative sull’aumento dei voli charter verso la Tunisia.
Unops, il nuovo intermediario che si fa carico degli appalti
A implementare il progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia è l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Servizi ed i Progetti (Unops), con cui il Ministero degli affari esteri annuncia di aver sottoscritto un’intesa il 9 dicembre 2020. Da allora, è l’Unops, la cui sede regionale è proprio a Tunisi, a farsi carico della gestione dei fondi e quindi delle gare d’appalto che ne giustificano la spesa.
All’interno della galassia Onu, l’Unops si occupa solitamente della gestione di «progetti di sviluppo sostenibile», si legge sul loro sito. La collaborazione con il Maeci sembra fare eccezione. L’obiettivo della collaborazione Unops-Maeci è infatti la manutenzione e la rimessa in efficienza di sei motovedette già in possesso della Guardia Nazionale tunisina, organismo dipendente dal Ministero dell’interno in Tunisia. I mezzi coinvolti sono sei pattugliatori P350 donati dall’Italia alla Tunisia nel 2014 e ubicati nei porti delle città costiere di Zarzis, Sfax, Sousse, Bizerte e Rades, come confermato da Unops.


A partecipare al bando per la manutenzione delle sei motovedette tunisine, la cui data di scadenza viene prorogata ben due volte, è un solo cantiere: il Cantiere Navale Vittoria (CNV) di Andria, in provincia di Rovigo. Si tratta dello stesso cantiere che nel 2014 si era già aggiudicato la fornitura di dodici motovedette15 alla Tunisia per un totale di 16,5 milioni di euro, per poi riparare sei di queste nel 2017 incassando, secondo il risultato del bando consultato da ActionAid e IrpiMedia, altri 6,3 milioni di euro . Quattro anni più tardi, nel 2021, Unops stanzia 3,9 milioni di euro per la manutenzione delle stesse motovedette, ma la cifra risulta inferiore a quella proposta dal Cantiere Navale Vittoria, che chiede il doppio . Dopo una serie di negoziazioni, CNV si aggiudica comunque la gara e l’agenzia Onu è costretta a rivedere il budget. Contattato da IrpiMedia, il Cantiere Navale Vittoria preferisce non commentare questi passaggi ed evoca «un accordo di segretezza firmato con Unops».
I mezzi della Cantiere Navale Vittoria in Tunisia
Come si legge dal sito della società, «il fiore all’occhiello del Cantiere Navale Vittoria (CNV) sono le imbarcazioni dedicate alla sicurezza, scelte dalle Polizie e dalla Guardie costiere e di molti Paesi del Mediterraneo». Attivo anche in Libia, è in Tunisia che il CNV ha giocato nel corso degli anni un ruolo di primo piano. Come ha potuto ricostruire IrpiMedia, infatti, è dal 2013 che il Cantiere Navale Vittoria mantiene solidi rapporti con le autorità tunisine in materia di forniture navali e manutenzione, sempre legate alle stesse sei imbarcazioni: GN 3501, 3502, 3503, 3504, 3505 e 3506, anche nominati P350.
Nel 2014, con 16,5 milioni di euro il CNV si aggiudica la fornitura di dodici pattugliatori alla Tunisia, tra cui le sei motovedette sopra citate. Solo tre anni dopo, nel 2017, il Cantiere Navale Vittoria ottiene un appalto da 6.302.501,00 euro del Viminale per la rimessa in efficienza dei sei pattugliatori. Facendo un rapido calcolo, nel giro di otto anni CNV ha incassato dallo Stato italiano 31,5 milioni di euro. La manutenzione viene affidata due volte al cantiere navale che ha fornito i pattugliatori alla Tunisia, ma il paese dispone in realtà di un cantiere navale che si occupa della costruzione e della riparazione di alcune delle motovedette della marina militare tunisina. Si tratta del cantiere SCIN (società di costruzione industriale e navale).
Il budget previsto in un primo momento, a quel punto, non copre più il totale delle spese. Oltre al preventivo salato dei Cantieri Navali Vittoria, infatti, si aggiunge la lista di materiale richiesto all’Italia dal ministero dell’Interno tunisino per un totale di 2,5 milioni di euro (un laboratorio mobile per eseguire test salivari del DNA, cinque minibus per il trasporto del personale, 25 pick-up, due ambulanze, cinque veicoli specializzati per il trasporto di detenuti, 20 binocoli e 20 rilevatori di presenza umana). A novembre 2021, allora, il MAECI decide di aumentare il budget del programma firmato un anno prima con Unops e stanzia altri 7 milioni, per un totale di 15 in due anni.
Con l’arrivo dei nuovi fondi, si sblocca la procedura per la consegna di quanto richiesto dal ministero dell’interno di Tunisi. « In questo momento i milioni messi a disposizione per l’acquisto di equipaggiamenti sono 8,8», risponde però l’agenzia delle Nazioni Unite alla richiesta di chiarimenti di IrpiMedia, dichiarando di aver speso tre volte tanto la cifra inizialmente dichiarata. Non è quindi chiaro quanti dei 15 milioni di euro arrivati in Tunisia siano stati spesi per la manutenzione delle motovedette da parte del Cantiere Navale Vittoria e quanti invece siano stati usati per rifornire il Ministero dell’Interno tunisino.
Le proteste contro i test del DNA
Tra la lista dell’equipaggiamento fornito al paese, compare un laboratorio mobile per i test del DNA, come confermano sia i report interni ottenuti da IrpiMedia, sia un tweet dell’Ambasciata italiana a Tunisi, che il 5 maggio 2022 rende pubblica la consegna «alla polizia scientifica della strumentazione nell’ambito dei progetti di cooperazione migratoria tra Italia e Tunisia». A febbraio 2022, racconta la testata d’inchiesta tunisina Inkyfada, le associazioni locali che operano in ambito migratorio avevano denunciato diversi arresti arbitrari e l’imposizione di test del DNA su diversi studenti subsahariani regolarmente presenti nella capitale nei commissariati di polizia.
«Da oltre un mese subiamo molteplici arresti arbitrari in diverse regioni della Tunisia. […] In commissariato, gli studenti vengono sottoposti a un trattamento umiliante senza conoscere le ragioni di tali arresti. Vengono prelevati loro le impronte digitali e il DNA senza il loro consenso», si legge in un comunicato reso pubblico durante una conferenza stampa dall’Associazione degli Studenti e degli Stagisti Subsahariani in Tunisia (AESAT). A confermare questa pratica a IrpiMedia è uno degli avvocati che ha seguito i casi di alcuni di alcuni subsahariani arrestati arbitrariamente. Contattata per un commento, l’agenzia Onu ha precisato che «il laboratorio servirà per l’identificazione rapida delle vittime di naufragio». Qualche mese più tardi, però, i test del DNA tornano al centro delle polemiche, questa volta a Zarzis. Dopo un naufragio avvenuto a fine settembre, costato la vita a 18 persone, le autorità tunisine hanno seppellito i cadaveri ritrovati in mare senza però procedere all’identificazione dei corpi e di conseguenza senza avvertire nessuno dei familiari. Le autorità locali, spiega Deutsche Welle, si sono giustificate sostenendo in un primo momento che si trattasse di cittadini stranieri. I corpi ritrovati sono stati seppelliti nel Giardino dell’Africa, un cimitero a Zarzis inaugurato lo scorso anno per i migranti senza nome annegati nella traversata. Eppure diverse famiglie avevano denunciato la scomparsa di alcuni parenti partiti il 21 settembre. La rabbia ha cominciato a montare fino al punto in cui le autorità locali hanno dovuto riaprire l’inchiesta, identificando sette persone, tutti tunisini. Gli altri undici, al 27 ottobre, sono ancora dispersi.
In due dei tre report interni sull’implementazione del progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia stilati dall’Unops nel 2020-2021, l’agenzia delle Nazioni Unite si preoccupa del «rischio legato alla reputazione», indicato come «da medio a alto». Il ministero dell’Interno tunisino, controparte di Unops e del MAECI per la riparazione delle motovedette, è infatti accusato di numerose violazioni denunciate dalla società civile locale e internazionale, tra cui gli arresti di massa di giovani manifestanti e difensori dei diritti umani a gennaio 2021. «L’impunità del passato nei confronti di atti di tortura e altri maltrattamenti o dell’uso eccessivo della forza ha contribuito a un ciclo di violazioni che non è ancora finito», denunciava nel 2021 Amnesty International facendo riferimento ad alti responsabili del Ministero dell’Interno ancora in carica, il cui processo non si è mai concluso.
Unops propone quindi di «stilare una valutazione del rischio per garantire che le autorità tunisine non abbiano la tendenza violare gli statuti sulla migrazione internazionale e i diritti umani» ed «evitare comunicazioni pubbliche o interazioni con i media senza autorizzazione preventiva», si legge ancora in due dei tre report . «Unops ha realizzato una valutazione ragionevole in materia di diritti dell’uomo, come richiesto per tutti i progetti delle Nazioni Unite che portano un sostegno alle forze di sicurezza che non fanno parte dell’Onu», ha commentato Unops.
La zona Sar tunisina, un’ambiguità che fa comodo a tutti
Tra il 2011 e il 2022, in materia di controllo delle frontiere e di flussi migratori lo Stato italiano ha allocato alla Tunisia più di 47 milioni di euro , di cui buona parte sono stati spesi per l’invio delle imbarcazioni alla guardia costiera tunisina e la loro rimessa in efficienza. Di questi finanziamenti ha beneficiato, direttamente o indirettamente, il Ministero dell’Interno tunisino, accusato dalle associazioni della società civile non solo di numerosi episodi di violazione dei diritti umani, ma anche di mancanza di trasparenza nella rendicontazione dei fondi. L’unico documento disponibile che giustificherebbe una parte delle spese non risulta attendibile perché in contrasto con i dati ottenuti dalla controparte italiana. Numerose richieste di accesso agli atti da parte delle associazioni tunisine sono rimaste senza risposta, e una verifica dell’effettivo uso dei fondi nel paese risulta quindi complicata.
In più, secondo le informazioni confermate ad IrpiMedia dall’ong che raccoglie le richieste di sos dei migranti in difficoltà, AlarmPhone, a partire dal 2020 il Ministero dell’Interno gestisce solo una piccola parte delle operazioni di soccorso: quelle effettuate in acque territoriali tunisine. A farsi carico dei salvataggi oltre le 12 miglia marine per conto dell’MRCC, il centro marittimo che coordina le operazioni di Search & Rescue, è invece la Marina militare dell’esercito tunisino, che dispone di quattro grandi imbarcazioni francesi ferme nei porti di Monastir, Sfax, Bizerte e Tunisi e di almeno 50 motovedette statunitensi cedute dagli Usa nell’ambito del programma AFRICOM.
A partire dal 2020, da quando Frontex ha intensificato le operazioni aeree in Tunisia gli attori della società civile constatano un cambio di passo: «Prima non ottenevamo risposta dall’MRCC. Dal 2020 invece rispondono alle chiamate e comunicano in inglese», conferma un membro di AlarmPhone. L’MRCC è gestito dal Ministero della Difesa, e proprio la marina militare tunisina, insieme a quella di altri dodici paesi tra cui l’Italia e la Libia, è stata recentemente protagonista delle esercitazioni militari a guida Nato che si sono tenute nel Mediterraneo tra dal 23 maggio al 3 giugno di quest’anno con l’obiettivo di «migliorare gli sforzi che promuovono la sicurezza nel Mar Mediterraneo e nelle acque territoriali delle nazioni nordafricane partecipanti».
Che si tratti della guardia costiera o della marina militare, le operazioni di salvataggio tunisine vengono comunque ancora effettuate in un ambiguo spazio di non-diritto. Da un lato, la Tunisia non dispone ancora di una legge sul diritto d’asilo e continua a criminalizzare la migrazione irregolare. Un migrante di nazionalità non tunisina ha quindi il diritto di richiedere l’asilo nel paese rivolgendosi all’UNCHR, evitando così l’espulsione, ma non avrà diritto di lavorare nel paese, rimanendo ai margini della società.
Dall’altro, la Tunisia non dispone ancora di una Regione di ricerca e soccorso, ovvero di quell’area di competenza in cui in paese è formalmente tenuto a prestare soccorso, anche se opera ormai come se ci fosse, sostiene Romdhane Ben Amor, portavoce del FTDES. «Dal 2020 osserviamo un’intensificazione delle operazioni in mare, sempre più vicine alle coste italiane – continua Romdhane Ben Amor – e tutto fa pensare che si stia procedendo verso una futura dichiarazione della zona SAR da parte della Tunisia». Per poter notificare all’IMO la propria zona SAR, infatti, il governo di Tunisi deve dimostrare di avere un MRCC funzionante e tutto l’equipaggiamento necessario per assicurare operazioni di salvataggio al di là delle proprie acque territoriali. Equipaggiamento che, anche nel caso tunisino, arriva dall’Italia.
Come ha affermato lo stesso ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio, però, l’obiettivo primario per fronteggiare le partenze restano i rimpatri: «Chi arriva in Italia in maniera irregolare non potrà usufruire di alcuna opportunità di regolarizzazione. L’unico esito di un arrivo irregolare è il rimpatrio». Ma tra sovraffollamento dei CPR e sbarchi in aumento – molti migranti, tra l’altro, dichiarano di aver tentato più volte la traversata nonostante il rimpatrio – il sistema rimpatri non funziona come Roma vorrebbe. La Tunisia rappresenta sì la prima nazionalità per numero di rimpatri (il 73,5% del totale), ma nel 2020 e 2021 sono state riportate indietro 3.794 persone a fronte di 28.554 arrivi.
Questo ha portato le autorità nostrane negoziare con la controparte tunisina. Lo schema è sempre lo stesso: finanziamenti alla Tunisia in cambio di procedure semplificate di rimpatrio. Secondo un documento di maggio 2022 della Commissione Europea sulla cooperazione estera in ambito migratorio, visualizzato da IrpiMedia, la nota d’intesa tra Italia e Tunisia potrebbe presto trasformarsi in un vero e proprio accordo di riammissione tra il paese nordafricano e l’Unione Europea, che potrebbe includere non solo i rimpatri dei tunisini, ma anche quelli di migranti di nazionalità terza passati per la Tunisia. “La Commissione è in procinto di lanciare i primi partenariati con i paesi nordafricani, tra cui la Tunisia, la cui attuazione dovrebbe iniziare entro la fine del 2022”, si legge in riferimento a futuri accordi di riammissione.
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