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Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Il Grande Muro del Mediterraneo è costruito su bandi di cui è difficile tenere traccia. Nel complesso, l’esternalizzazione è costata oltre un miliardo. E i risultati non sono soddisfacenti

di Fabio Papetti e Lorenzo Bagnoli
Ha collaborato Antonella Mautone
In partnership con ActionAid

Dal primo gennaio ai primi di luglio 2022 9.430 migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia. Le «operazioni» sono state 112; negli ultimi cinque mesi del 2021 erano state 108 e negli ultimi cinque mesi del 2020 56. La parola «operazione» in mare può assumere due significati: salvataggio oppure intercettazione. Per i migranti il finale è in ogni caso lo stesso: il rientro in un centro di detenzione della Libia, dove subiscono abusi e torture, fino al prossimo tentativo di traversata. 

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Le foto dell’articolo sono realizzate dalla fotogiornalista Sara Creta, che da anni segue inchieste e reportage sui migranti.

Senza il contributo dell’Italia e di altri paesi europei, la Libia non avrebbe delle forze marittime. L’Italia ha fornito molte navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione; fornisce equipaggiamenti specifici, somministra i corsi di formazione degli equipaggi, guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc). Queste azioni rappresentano i mattoni con i quali l’Italia ha costruito il Grande Muro delle frontiere esterne in Libia, The Big Wall. Con questo nome lo scorso anno ActionAid ha chiamato le politiche di contenimento dei flussi migratori che l’Italia, con il sostegno dell’Unione europea, ha messo in piedi a partire dal 2015; quasi un miliardo di euro che l’Italia si è impegnata a spendere per spingere le frontiere sempre più a Sud, allo scopo di evitare nuove partenze. Quest’anno IrpiMedia ed ActionAid hanno cercato di capire come sono stati spesi i soldi del Muro sulla rotta del Mediterraneo Centrale. I mattoni sono bandi di gara che rispondono a strategie disegnate da convenzioni che spesso non si riescono a ottenere attraverso richieste di accesso agli atti. Le fonti di finanziamento sono sia italiane, sia europee. Non le amministra un’unica cabina di regia. Il risultato è una spesa frammentata su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni implementare i progetti europei. Il processo di finanziamento, di conseguenza, non è trasparente. Da anni molte organizzazioni chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare. A questo si aggiunge anche un lato più politico: senza trasparenza è impossibile anche valutare quanto i finanziamenti per l’esternalizzazione delle frontiere abbiano raggiunto l’obiettivo di ridurre le partenze e stabilizzare la Libia.

Mattone su mattone

La Libia è uno Stato sovrano in punto di diritto, ma nei fatti il controllo delle sue frontiere, il suo esercito e la sua integrità territoriale sono a brandelli. «I gruppi armati libici e i loro leader hanno preso il ruolo che un tempo era di élite politiche e imprenditori corrotti, diventando così uno strumento fondamentale per qualsiasi sviluppo del paese», scrive il ricercatore Emadeddin Badi in un articolo pubblicato dall’Ispi l’8 luglio. Ci sono due governi, uno a Tripoli sostenuto dalle Nazioni Unite e uno a Tobruk, sostenuto dal parlamento libico, che si contendono il potere. Da giugno montano le proteste e si teme una nuova recrudescenza della guerra civile.

Le forze marittime ufficiali, la Guardia Costiera Libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), sono affiliate a Tripoli, rispettivamente al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno. Sono infiltrate da alcune milizie, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbandieri di gasolio. La brigata è responsabile della Gcl di Zawiya, ovest della Libia, dove il 30 giugno è stato aperto una nuova Stazione di sicurezza costiera. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio. A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno. Il picco più alto di mortalità è stato raggiunto nel 2019 quando un migrante ogni dieci che prendeva il mare è annegato o è finito disperso. Nonostante le condizioni della Libia e i risultati ancora molto al di sotto delle aspettative, ai partner italiani ed europei è chiesto di spendere sempre di più: la lista delle richieste delle forze armate libiche aumenta. Il ricatto costante è che senza il filtro dei libici l’Europa verrà invasa dai migranti subsahariani. È la logica che alimenta la costruzione di The Big Wall, mattone dopo mattone.

L’opacità dei flussi di denaro

L’instabilità permanente della Libia è stata la principale causa dei ritardi nella realizzazione dei progetti per controllare le frontiere terrestri e marittime della Libia. Il Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha ottenuto alcuni dei risultati previsti. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo. Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, l’Italia ha speso 27,2 milioni di euro di fondi europei dedicati a questo progetto. La dotazione prevista è di circa 46 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito circa 2 milioni. Il ministero dell’Interno è l’ente attuatore di Sibmmil, che rappresenta uno dei principali mattoni sui quali si regge The Big Wall.

Il cimitero del Mediterraneo centrale. A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno. Il picco più alto di mortalità è stato raggiunto nel 2019 quando un migrante ogni dieci che prendeva il mare è annegato o è finito disperso.

Sibmmil alle frontiere terrestri: l’accordo con l’Oim

Tra i beneficiari del fondo c’è anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), una delle due agenzie delle Nazioni Unite che si occupa di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. È tra le poche che riescono ad accedere – con grande difficoltà – ai centri di detenzione libici. Nell’ambito del progetto Sibmmil, ha ricevuto oltre 12 milioni di euro a seguito di un accordo triangolare con Commissione europea e Ministero dell’Interno italiano. Spiegano dall’agenzia delle Nazioni Unite che non si tratta di accordi nuovi dato che in Libia dal 2006 sono utilizzati per altri progetti di cooperazione. La convenzione tra Oim e il Viminale, ottenuta dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) con una richiesta di accesso agli atti, prevede per l’Oim il coinvolgimento soprattutto nell’assistenza medica dei migranti che arrivano dalle frontiere desertiche meridionali. L’assistenza e la protezione sono proprio due delle principali missioni dell’Oim. L’area del Sud è dove il progetto di costruzione dei confini libici è più indietro.

Tra le azioni richieste all’agenzia delle Nazioni Unite c’è anche «l’effettiva verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani e quindi non possano essere ritenuti affidabili e credibili nella promozione e nell’applicazione degli standard internazionali». L’azione sembra una diretta conseguenza delle rivelazioni del 2019 di Avvenire: il quotidiano ha scoperto che tra i guardacoste libici che hanno partecipato ai percorsi formazione in Italia c’era anche Adel Rahman al-Milad detto Bija, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio (link pezzi IrpiMedia).

Asgi non ha tuttavia potuto avere accesso agli allegati che contengono i dettagli della convenzione Oim-Viminale perché rientrano «nel più ampio quadro delle attività e dei rapporti di cooperazione internazionale di Polizia con la Libia» e di conseguenza «la completa ostensione consentirebbe a chiunque di venirne a conoscenza, con evidente

compromissione della riservatezza necessaria in materia di cooperazione di Polizia e di contrasto all’immigrazione irregolare; riservatezza questa sulla quale, peraltro, si fondano i rapporti di fiducia intercorrenti tra l’Italia con i Paesi Terzi, ed in particolare con le autorità libiche».

Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne oltre quattro-quinti, circa 22 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione. Le principali voci di spesa sono 8,6 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,8 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container. Il bando di gara di dieci di questi prevede che otto di loro siano grigi, lunghi dodici metri, larghi 2,5, alti quasi tre. Uno di questi, prosegue il bando, è suddiviso in tre stanze: una sala riunioni da un lato e dall’altro quattro scrivanie, con un bagno. È la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare, una delle forniture fondamentali per rendere le forze marittime libiche indipendenti. Almeno, secondo quanto previsto dal progetto europeo.

Milioni di euro per il Big Wall. Dei 44,5 milioni di euro stanziati dall’Europa, l’Italia ne ha gestiti più di 32. Di questi, ne abbiamo tracciati circa 27

Il supporto a Gacs e Guardia costiera

Sia la Gacs, sia la Gcl hanno «limitate capacità operative», si legge nel rapporto di monitoraggio sulle attività della marina libica curato dai militari della missione Irini lo scorso dicembre, un documento confidenziale.

La Gacs è una forza di polizia che fino al 2019 circa ha mandato di operare entro le acque territoriali libiche. Nel 2020 ha partecipato a 14 operazioni di recupero in mare ed è stata coinvolta in un progetto pilota ancora in corso con Frontex e il ministero dell’Interno italiano per rafforzare la loro capacità di salvataggio. L’intento è inserirla all’interno di un sistema di monitoraggio delle frontiere marittime all’interno del quale la Gacs possa avere uno scambio di informazioni con le altre polizie di frontiera europee. Lo scopo va anche oltre l’immigrazione: la Gacs dovrebbe contribuire a fermare anche navi che muovono prodotti di contrabbando, pescatori che non rispettano le regole, carichi di armi. L’Italia ha fornito alla Gacs sette motovedette tra i 28 e i 35 metri e un’altra ventina di imbarcazioni tra i nove e i dodici metri, per una spesa complessiva di oltre 9 milioni di euro.

La Guardia costiera, invece, è la forza marittima che dipende dal ministero della Difesa. Secondo il report di monitoraggio della missione europea Irini – punto di contatto dei militari sia per la formazione, sia per lo scambio di informazioni – la Gcl e la Marina Militare dispongono di 26 navi, 17 delle quali sono state donate o riparate dall’Italia. La spesa complessiva, tra soldi già spesi e da spendere nell’arco del 2022, supera i 3 milioni di euro, dal 2018 a oggi. Le motovedette Ubari, Ras Al Jadar, Sabratha sono state protagoniste di scontri con le ong o di violenze sui migranti.

Un video promozionale della Gacs pubblicato su Youtube l’8 giugno mostra le motovedette cedute dagli italiani anche al loro interno: i loghi del Cantiere Navale Vittoria, i monitor, le bussole elettroniche e le bussole satellitari Furuno, i sistemi di navigazione, tutto è stato fornito alla Libia attraverso gare d’appalto bandite dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza. Nel video, il direttore della Gacs Al-Bashir Bannour dichiara: «Ringraziamo i nostri partner italiani per sostenerci da anni con la costruzione, la fornitura di pezzi di ricambio, di manutenzione e la formazione dei lavoratori». Il video esplicita il ricatto delle forze marittime libiche all’Europa: «Secondo le stime ufficiali il numero dei migranti è raddoppiato – spiega la voce narrante – e la Gacs non ha la forza per ridurre gli sbarchi ma può combattere i trafficanti». Più avanti spiega che la possibilità di contrastare il fenomeno è condizionata dalla mancanza di mezzi «che limita l’efficacia delle forze di sicurezza costiere». «Il Ministero dell’Interno – prosegue il video – spera che queste nuove navi aiutino ad aumentare la capacità degli equipaggi» grazie a «nuovi device» e «sistemi di propulsione per affrontare le condizioni in alto mare».

Cosa sappiamo del centro di coordinamento dei salvataggi

Il 2 dicembre 2021, la nave della Marina Militare San Giorgio ha ormeggiato alla base di Abu Sitta, centro operativo della Guardia costiera libica, per consegnare dieci container. Le casse mobili sono abitabili: servono per la creazione del centro di coordinamento dei salvataggi e di una sorta di accampamento. Il centro di coordinamento, infatti si potrà spostare. L’Unione Europea sta valutando la possibilità di finanziare altri due Mrcc fissi, uno in Libia e l’altro in Tunisia. In questo modo si avrebbe una struttura permanente a coprire il tratto di costa dove si è registrato il più alto numero di partenze, quello da Tunisi a Tripoli, che è anche la costa più vicina all’Italia, e uno più leggero che si potrebbe spostare. Infatti dalla seconda metà del 2021 il trend vede in crescita le partenze anche dall’enorme tratto di costa che si stende da Tripoli all’Egitto.

La Marina Militare ha solo confermato di aver preso parte alla missione Sibmmil per la realizzazione dell’Mrcc ma non ha fornito ulteriori chiarimenti rispetto alla messa a terra dei container (di cui quattro saranno adibiti ad alloggi, due a uffici, uno a cucina, uno a cella frigo, uno a generatore e uno a ufficio del centro di coordinamento).

Attraverso le immagini satellitari è però possibile constatare che tra dicembre 2021 e febbraio 2022 nel grande piazzale adiacente all’edificio dove ha sede il Ministero della Difesa, alla base navale di Abu Sutta, sono comparsi sei nuovi container di dimensioni compatibili con le casse mobili oggetto dell’appalto della Marina Militare. Le strutture formano una sorta di accampamento, insieme ad altri tre container che già erano nel porto di Abu Sitta. Non è possibile però stabilire con esattezza quale sia la loro funzione. Di certo insieme ai container sono arrivate anche delle apparecchiature radio e radar fornite dalle aziende italiane Gem Elettronica srl e Elman srl. Entrambe non hanno voluto commentare alle nostre richieste di chiarimento sull’implementazione del Mrcc. Secondo il disciplinare di gara della Marina Militare, per il sistema di navigazione elettronico in tempo reale Ecdis, obbligatorio in ogni base navale dal 2012, è prevista la possibilità di «integrazione ed interfacciamento con il sensore radar GEM già installato a Tripoli presso la base di Abu Sitta, con vincolo di distanza massima sensore-container inferiore ad 1 Km, con fornitura del collegamento in fibra ottica necessario». Questo significa che la base di Abu Sitta rientra tra le possibili location del container. Gem Elettronica, di proprietà al 30% Leonardo spa, è stata coinvolta nella fornitura di radar per le frontiere terrestri di Tripoli già dal 2013. Elman srl nel maggio 2021 ha pubblicato sul proprio sito un comunicato in cui annunciava la sua partecipazione al progetto per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi in Libia.

L’europarlamentare della Die Linke Özlem Demirel ha chiesto con un‘interrogazione l’esatta localizzazione del centro di coordinamento dei soccorsi di Tripoli. Ad aprile ha ricevuto questa risposta dal Commissario europeo per l’allargamento e le politiche di vicinato Oliver Varhelyi: «Al momento stiamo discutendo con le autorità libiche per identificare il luogo più adatto per l’Mrcc. Per ragioni di sicurezza non è possibile fornire informazioni sull’esatta localizzazione dell’Mrcc». La localizzazione di centro di soccorso normalmente è consultabile nella banca dati mondiale Search and rescue contact, anche per paesi in situazioni molto instabili, come la Siria. Per la Libia però la casella delle coordinate geografiche è vuota. Sul mistero del Mrcc di Tripoli restano quindi due certezze: primo, l’arrivo delle casse mobili nella zona indicata come una possibile sede del centro di soccorso – Abu Sitta – è contestuale all’implementazione del progetto Sibmmil; secondo, rispetto al 2019 la situazione del centro di coordinamento dei migranti è molto cambiata, per quanto ancora il livello di indipendenza dei libici non sia soddisfacente per i partner europei.

L’altro muro: fondi europei senza trasparenza

Durante la raccolta di informazioni e dati, IrpiMedia ha chiesto più volte accesso alle informazioni riguardanti gli sviluppi del Mrcc. Le risposte o non sono arrivate, o è stato risposto che «per motivi di sicurezza» certe informazioni non possono essere rese pubbliche. I fondi europei dedicati all’Africa «sono al di fuori del controllo del parlamento europeo», spiegano la parlamentare europea Özlem Demirel e la sua assistente Ota Jaksch. Il parlamento riceve un report annuale, un file che si può trovare facendo una semplice ricerca su internet, e le informazioni contenute non sono specifiche di ogni operazione o progetto. Inoltre, non vengono menzionati i beneficiari di tali fondi. «La commissione stende il programma del fondo senza chiedere ai parlamentari di esprimere un parere – continua Jaksch -. Ciò che il fondo segue sono gli interessi che vogliono raggiungere i singoli stati membri, e questo era così fin dall’inizio». L’unico strumento a disposizione dei parlamentari per chiedere maggiori informazioni alla Commissione e al Consiglio sono le interrogazioni, «ma hanno un limite di 200 parole e di tre domande massimo. Noi dobbiamo già sapere qualcosa per conto nostro e poi solo allora possiamo provare a chiedere qualcosa e sperare di avere una risposta», concludono Jaksch e Demirel.

Coordinamenti per procura

«La marina militare italiana svolg(e) di fatto le funzioni di centro decisionale della c. d. Guardia Costiera libica”» e di fatto è «il reale centro operativo di comando». Questa annotazione sull’inesistenza di un centro di coordinamento dei soccorsi in mare in Libia proviene dal dispositivo di archiviazione di Mare Jonio, nave della ong Mediterranea. L’ accusa all’ong – favoreggiamento dell’immigrazione irregolare – è stata archiviata a gennaio 2022, su richiesta della stessa procura. In quella circostanza era stata dimostrata la dipendenza della Libia dall’Italia in termini di coordinamento delle operazioni di soccorso in mare

Secondo Felix Weiss, portavoce della ong Sea Watch, almeno fino al 2020 «quando contattavamo le imbarcazioni libiche in mare per avvertirle di un caso di barcone in difficoltà in mare, noi parlavamo in inglese, ma loro non capivano e non ci rispondevano». Le comunicazioni erano difficili anche quando si tentava di chiamare il Joint Rescue Coordination Centre (Jrcc) libico. Questo tipo di struttura coordina sia interventi di salvataggio via mare, sia via aerea e secondo diverse fonti avrebbe sede all’aeroporto di Mitiga. Tutt’ora è un mistero la sua esatta collocazione e il modo in cui si interfaccia con il centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare che l’Italia sta realizzando in Libia attraverso Sibmmil.

Il Jrcc di Mitiga tra il 2019 e il 2022 ha fornito dieci caselle email con le quali comunicare e almeno sei numeri di telefono. Nessun risultato fino almeno alla fine del 2021, quando le ong hanno cominciato a notare qualche cambiamento: qualche conversazione è avvenuta, qualche risposta è stata fornita anche in inglese. Non solo maggiore comunicazione, anche maggiore competenza marittima: se prima «chi pilotava le imbarcazioni libiche quasi non sapeva leggere le coordinate, adesso la situazione è cambiata e abbiamo riscontrato una maggior efficienza», prosegue Weiss.

Tra le fonti di informazione delle autorità libiche, a partire dal 2017 ci sono anche i droni di Frontex, l’agenzia europea di pattugliamento delle frontiere. Ci sono diversi bandi che hanno rafforzato la flotta di velivoli senza piloti necessari al monitoraggio delle frontiere esterne l’ultimo dei quali, chiuso nel 2021, aveva un valore di 101,5 milioni di euro. Nel 2020 il segretario Josep Borrell ha spiegato rispondendo a un’interrogazione parlamentare che «non ci sono scambi di informazioni operative tra Frontex e la Guardia costiera libica» ma all’interno di un progetto di monitoraggio dei confini esterni tra il 2017 e il novembre 2019 sono state segnalate a diverse autorità di paesi confinanti- incluse quelle libiche – 42 imbarcazioni in difficoltà.

Tutto questo fa pensare a un parziale successo del progetto dell’UE co-finanziato dall’Italia. In realtà però i libici non perseguono solamente gli obiettivi che interessano all’Italia e all’Europa. Infatti non necessariamente coordinano delle operazioni di salvataggio: «Non ci forniscono più informazioni su ciò che succede in mare», afferma Juan Matias Gil, capo missione di Medici Senza Frontiere (Msf). L’ong infatti viene a conoscenza dei casi di natanti in difficoltà sempre da fonti che non sono il centro di coordinamento libico, anche quando sono i più vicini al potenziale naufragio. «Questo tipo di atteggiamento crea un rischio ulteriore per chi si mette in mare con navi di fortuna. Avvertire solo i diversi centri di coordinamento e non le navi in zona ha causato già ritardi in altre operazioni dove le imbarcazioni che dovevano essere salvate si sono ribaltate», aggiunge Weiss di Sea Watch.

Il coordinamento tra forze marittime libiche è ancora un grosso punto di domanda. Questo si ripercuote anche sulla loro capacità di intervento: «Su otto operazioni di ricerca e soccorso, noi arriviamo prima in almeno cinque casi», stima Gil di Msf. La mancanza di comunicazione con le navi che stanno per mare è endemica: le ong riescono solo in rare occasioni a ottenere una risposta dalle motovedette che agiscono sul posto o dal centro di coordinamento: «Ogni volta non sappiamo se arriveremo sul posto prima noi o prima loro», conclude Gil.

L’aumento delle capacità d’intervento, d’altro canto, è dimostrato dai casi di sconfinamento delle navi libiche nella Regione di ricerca e salvataggio di responsabilità maltese. Sia Mediterranea, sia Sea Watch hanno raccolto diversi casi a partire dall’ottobre 2019. Uno dei più recenti è avvenuto ad aprile: le unità navali libiche sono entrate di oltre 25 miglia nautiche nelle acque di competenza maltese. Le ong escludono che sia solo uno sbaglio, considerato il fatto che le unità libiche ricevono costante supporto logistico dai droni che Frontex usa quotidianamente.

Quando lo stato sragiona

Esiste uno schema ricorrente nella cooperazione tra paesi europei e paesi governati da regimi autoritari oppure da esecutivi molto deboli. C’è spesso una “ragion di Stato” che spinge a stringere accordi anche quando è difficile capire chi è davvero l’interlocutore e quali siano i suoi obiettivi. Ci sono casi, come quello svelato dall’inchiesta di Disclose intitolata Egypt Papers, in cui alla fine ci sono pubblici ufficiali dello Stato che contribuiscono a rivelare documenti top secret che dimostrano la discrepanza tra l’obiettivo dei francesi e del loro partner. In quel caso si trattava dell’Egitto, con il quale la Francia collabora in una missione segreta, Operazione Sirli, che nei piani di Parigi avrebbe dovuto sconfiggere il terrorosimo, nei piani de Il Cairo è servita per eliminare contrabbandieri e nemici politici. La situazione tra Italia e Libia mostra qualche analogia e diverse differenze.

La prima riguarda i numeri: i sostenitori della cooperazione con le forze marittime libiche possono affermare che l’efficienza delle forze marittime libiche sia aumentata. Tuttavia la “ragion di Stato” vacilla se gli stessi militari formati dall’Europa sono accusati di traffico e contrabbando, oppure se non è nemmeno chiaro come funzioni la catena di comando tra l’est e l’ovest del paese. I migranti recentemente partono spesso dall’Est del paese e sfrutteranno in ogni circostanza le debolezze del sistema di controllo libico per tentare di fuggire dalla drammatica condizione dei centri di detenzione. Senza una Libia davvero pacificata, qualunque progetto securitario è destinato a fallire.

 La seconda differenza tra i rapporti Francia-Egitto e Italia-Libia sta nel fatto che nel primo caso ci sono stati ufficiali che hanno reso pubblici documenti ufficiali che fornissero qualche elemento di contesto sull’andamento della cooperazione, mentre in Italia c’è il massimo riserbo. Per sentire opinioni contrarie bisogna guardare al passato e al contesto europeo.

Nel 2017, quando la Gran Bretagna era ancora parte dell’Unione europea, i parlamentari della Camera dei Lord hanno prodotto un report in cui hanno definito la missione Sophia, quella che nel 2020 è diventata Irini, «fallita». Il documento sottolineava che la missione europea di sostegno alla creazione di un sistema di frontiere integrato, Eubam, non aveva nel proprio mandato combattere l’immigrazione irregolare, che per gli inglesi era invece l’obiettivo principale della loro partecipazione. Definiva poi «una grande sfida» formare una guardia costiera rispettosa dei diritti umani. Il punto è vero oggi quanto allora: a fine marzo 2022 la Germania ha deciso di non partecipare più ai corsi di addestramento dei libici a causa del «comportamento inaccettabile» di questi ultimi.

Se dal punto di vista giuridico la Libia è nel pieno controllo delle sue frontiere di mare e di terra, nei fatti questo controllo si vede solo a tratti sul fronte marittimo, quello terrestre è ancora del tutto fuori controllo. In mare, non c’è un vero interesse per la gestione delle operazioni di salvataggio, ma gli strumenti tecnologici sono impiegati dalle diverse componenti delle forze marittime libiche con scopi diversi, anche in una logica di cooperazione interna. Secondo Mark Micallef, analista di Gitoc esperto di Libia intervistato nell’ambito dell’inchiesta, stanno anche cercando di progredire nelle loro capacità di ricerca e soccorso, ma il discorso non si applica alle forze marittime libiche nel loro complesso. Eppure la spesa per l’esternalizzazione delle frontiere in Libia continua senza tregua.

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