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La stretta sui migranti subsahariani in Tunisia aumenta le partenze verso l’Italia

La svolta del presidente Kais Saied dopo un discorso del 21 febbraio dalla retorica sovranista. Dall’Italia crescono i fondi per sigillare le frontiere tunisine in us cita: 12 milioni in più nel 2022

Testo e foto di Arianna Poletti e Matteo Garavoglia

Editing di Lorenzo Bagnoli

Manifestazione organizzata da esponenti della società civile di Tunisi dopo il discorso del presidente Saied (di Arianna Poletti)

  • La Tunisia è un Paese sempre più insicuro per migranti e richiedenti asilo subsahariani. Un presidio di protesta di fronte all’UNHCR di Tunisi è stato sgomberato dalla polizia con la forza il 12 aprile. I migranti chiedevano di poter essere rimpatriati nei loro Paesi d’origine. Per chi non riesce, l’unica opzione che resta è prendere il mare, direzione Sicilia.
  • I dati dell’altra agenzia Onu che si occupa di migranti, IOM, indicano, da febbraio, 600 richieste di rimpatrio volontario da Tunisi. I subsahariani in Tunisia sono però 21mila. Oggi iscriversi alle liste d’attesa è impossibile e c’è chi paga per provare a rientrarci. Gli sbarchi in Italia dalle coste tunisini a marzo hanno superato quelli dalle coste libiche.
  • Le condizioni di vita dei migranti sono peggiorate da quando il 21 febbraio 2023 il presidente Saied ha invocato la teoria della “grande sostituzione”, legittimazione delle politiche contro i migranti anche in Europa, promuovendo una misura che punisce chi fornisce ai subsahariani qualunque forma di assistenza.
  • Dalla comunità internazionale si è alzata qualche voce critica, ma non dall’Italia che si conferma tra i primi partner della Tunisia. Nella seconda metà del 2022, Roma ha anche aggiunto un ulteriore sostegno di 12 milioni di euro per la gestione delle frontiere tunisine, proveniente dal Fondo premialità. 
  • Il Fondo premialità è uno strumento molto elastico e il criterio con il quale vengono distribuite le risorse al suo interno è del tutto arbitrario. Gli incrementi alla sua dotazione finanziaria si calcolano a partire dal disavanzo del Ministero dell’Interno sulle spese per l’accoglienza.

La bandiera dell’Unione Europea sventola sul tetto della sede della delegazione UE, a Lac 1, a Tunisi, dove sono di casa molte organizzazioni internazionali. Il rumore degli aerei che decollano dall’aeroporto poco lontano rimbomba tra le vetrate dei condomini di questo quartiere costruito negli anni Novanta grazie ai finanziamenti dell’Arabia Saudita. Lungo la strada che percorre la laguna a Nord della capitale tunisina, i taxi sono costretti a fare marcia indietro: un sit-in blocca loro il passaggio. Un centinaio di richiedenti asilo e rifugiati nel Paese nordafricano si sono installati di fronte all’entrata della sede dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UNHCR), in segno di protesta, a inizio anno. 

La loro occupazione è stata smantellata dalle forze di polizia il 12 aprile, su richiesta dell’UNHCR. L’organizzazione ha dichiarato in un comunicato di essere «profondamente disturbata dalla violenta protesta che ha avuto luogo di fronte alla sua sede», citando «danni materiali che hanno aumentato la tensione con le forze di polizia», una versione dei fatti diffusa anche dalle autorità tunisine. L’agenzia di stampa internazionale Afp sostiene invece che le forze dell’ordine tunisine abbiano usato dei lacrimogeni per disperdere i migranti che protestavano. Da giorni la tensione con polizia e residenti continuava a salire di fronte alla sede dell’organizzazione internazionale. A mezzogiorno del 12 aprile, del sit-in non rimaneva che qualche brandello delle tende, scarpe e oggetti abbandonati da chi è fuggito. 

Richiedenti asilo e rifugiati hanno una sola richiesta comune: poter lasciare la Tunisia e ottenere un reinsediamento in un Paese terzo. «Non ci sentiamo più al sicuro qui», è il ritornello che ricorreva tra le tende al sole, sotto il filo spinato che percorre il muro all’entrata dell’organizzazione internazionale, prima dello smantellamento. Provenienti da Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, Sierra Leone e Yemen, i richiedenti asilo, uomini, donne e bambini, manifestano da mesi, filmando e diffondendo le loro azioni e le aggressioni che subiscono anche tramite un profilo Twitter

Secondo i richiedenti asilo presenti sul posto fino a metà aprile, a causa della protesta il personale di UNHCR Tunisia si sarebbe trasferito in un’altra sede. Il 3 aprile, l’organizzazione internazionale ha sospeso temporaneamente le attività di registrazione di richiedenti asilo e rifugiati in Tunisia, si legge in un comunicato, a causa ufficialmente di «nuove modifiche nel sistema di registrazione». Contattato da IrpiMedia, UNHCR fa sapere che l’organizzazione «èprofondamente preoccupata per il recente deterioramento delle condizioni di protezione delle persone provenienti dai paesi dell’Africa occidentale e centrale». A ottenere un reinsediamento in un Paese terzo, però, è «meno dell’1% di coloro che lo richiedono», risponde l’organizzazione. Nel 2022, su 7.535 tra richiedenti asilo e rifugiati presenti in Tunisia, l’UNHCR ha raccolto 152 richieste di reinsediamento, ma ha potuto dar seguito solo a venti di queste. 

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Chiedere asilo in Tunisia

Nonostante la Tunisia abbia ratificato la convenzione di Ginevra del 1951 relativa all’asilo, il Paese non si è conformato alle leggi internazionali. Come richiesto da UNHCR e OIM, è stato elaborato un progetto di legge, che però non è mai stata approvato. Lo Stato tunisino delega quindi gestione e assistenza di coloro che desiderano richiedere l’asilo in Tunisia esclusivamente alle organizzazioni internazionali. Nel 2022, erano 7.535 i rifugiati e richiedenti asilo registrati da UNHCR. Mancando un quadro normativo di riferimento, il tesserino che ottiene chi si rivolge all’agenzia ONU responsabile di valutare le richieste d’asilo non è considerato un documento d’identità amministrativamente valido per potersi mettere in regola, studiare o lavorare. Questo fa sì che chi ha ottenuto lo status di rifugiato nel Paese si ritrovi nella maggior parte dei casi in situazioni di estrema precarietà, spesso senza lavoro, e difficilmente riesca a ottenere un permesso di soggiorno, mettendosi effettivamente in regola secondo i criteri della legge tunisina. Proprio per attirare l’attenzione sulla loro situazione di precarietà, rifugiati e  richiedenti asilo protestano da più di un anno in Tunisia. Dopo le prime proteste a Zarzis a inizio 2022, città del Sud della Tunisia nonché porto di partenze verso l’Italia, il sit-in si è spostato a Tunisi ad aprile dell’anno scorso, per poi essere smantellato a luglio. Un anno dopo, il presidio di protesta è tornato a farsi sentire di fronte alla sede dell’UNCHR. 

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Un anno dopo le prime proteste dei rifugiati e richiedenti asilo presenti in Tunisia, le condizioni di vita della comunità subsahariana nel Paese sono notevolmente peggiorate a inizio 2023, a seguito di una massiccia campagna di arresti e di numerose aggressioni a sfondo razziale legittimate da un comunicato del Presidente tunisino. «Per gestire i flussi di migranti verso l’Europa, la Tunisia sta impiegando tutte le risorse e i mezzi a sua disposizione – dichiara il ministro degli esteri Nabil Ammar a Repubblica a inizio aprile -. Ma questi non sono illimitati. Ci servono più mezzi». Ammar il 12 e 13 aprile è stato in visita istituzionale a Roma, per incontrare sia il ministro degli Esteri Antonio Tajani, sia il commissario europeo per l’Allargamento e la politica di vicinato Oliver Varhelyi. Quest’ultimo dovrebbe  L’obiettivo è sempre mantenere solidi i rapporti con la sponda Nord del Mediterraneo, che dagli anni Novanta eroga finanziamenti per la gestione dei flussi migratori dalla Tunisia. 

L’ultima settimana di febbraio, un gruppo di cittadini ivoriani si è installato di fronte all’Ambasciata della Costa d’Avorio per iscriversi sulle liste di rimpatrio (foto di Matteo Garavoglia)

La “grande sostituzione” secondo Saied

Il 21 febbraio 2023 è stata una data spartiacque per le politiche sull’accoglienza in Tunisia. Ha segnato l’ennesimo peggioramento delle condizioni di vita di migranti e richiedenti asilo. Secondo il comunicato del presidente tunisino Kais Saied, infatti, in Tunisia ci sarebbero «orde di migranti subsahariani» che minacciano sul piano demografico «l’identità arabo-islamica della Tunisia». Con le sue parole, il presidente agita la teoria del complotto del grand remplacement, la sostituzione etnica della popolazione locale da parte di quella migrante, molto in voga anche tra le destre sovraniste d’Europa.

«Citare una teoria non significa condividerla», è stato il commento delle autorità alle domande dei giornalisti durante una conferenza stampa presso il Ministero degli Esteri. A pagare il prezzo di queste dichiarazioni, però, sono migliaia di subsahariani – spesso in situazione di irregolarità anche a causa delle costose procedure burocratiche e amministrative che implica una regolarizzazione – che hanno perso il lavoro e la casa, ritrovandosi per strada, esposti a furti e aggressioni spesso nei quartieri più precari delle grandi città della Tunisia, dove la tensione sociale dovuta al generico impoverimento della popolazione è molto alta. 

Secondo la legge  n°2004-6 (per ora) raramente applicata, infatti, chiunque fornisca un qualsiasi tipo di «aiuto o assistenza» a persone in situazione di irregolarità rischia fino a tre anni di carcere per favoreggiamento. La minaccia di sanzioni, anche in nome di questa legge, ha fatto sì che si scatenasse il panico tra datori di lavoro e proprietari di alloggi da anni affittati a subsahariani. Molte famiglie si sono così ritrovate per strada da un giorno all’altro.  I subsahariani, allora, si sono rapidamente trasformati nel principale capro espiatorio della crisi economica. 

«Sono qui da ieri sera perché il proprietario, per timore di sanzioni, mi ha buttata fuori di casa», spiega Patience, trentenne arrivata dal Camerun, che ha raggiunto l’altra tendopoli formatasi di fronte alla sede dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM), non sapendo dove andare. Da anni la donna lavorava in un ristorante della capitale, ma non ha mai ottenuto un contratto di lavoro, condizione necessaria per richiedere un regolare permesso di soggiorno in Tunisia. Nel giro di qualche settimana, la sua vita in Tunisia è radicalmente cambiata. Patience ora non riesce più a mantenersi. Per strada, le opzioni che restano sono due: cercare di iscriversi sulle lunghissime liste per l’ottenimento di un rimpatrio nel Paese di orgine, nel quale lei non intende tornare, o imbarcarsi per l’Italia. “Io nemmeno ho un’ambasciata di riferimento a cui rivolgermi”, racconta poco lontano Khadija, 20 anni e un figlio di quattro mesi, arrivata due anni fa dalla Sierra Leone, che ha delegato la rappresentanza diplomatica all’ambasciata d’Egitto.

Intervista a Khadija, una manifestante di 20 anni che viene dalla Sierra Leone (di Arianna Poletti)

A fronte della precarizzazione delle condizioni di vita, molti tra i 21mila subsahariani presenti nel Paese sembrano aver accelerato il proprio progetto migratorio. Chi non vuole mettersi in mare, tenta di rivolgersi alla propria ambasciata di riferimento o all’Organizzazione Internazionale delle migrazioni (IOM), che gestisce i cosiddetti ritorni volontari. Di fronte alla sede di IOM Tunisia, una tendopoli è presente già da prima del 21 febbraio, occupata da decine di migranti che hanno depositato la propria richiesta di ritorno volontario e attendono da mesi un posto libero su un volo di rimpatrio. «Negoziamo con municipalità e governo per ottenere un centro di accoglienza, che però alla fine non ci viene fornito», fa sapere una fonte interna a IOM Tunisia che non è autorizzata a parlare con i giornalisti, commentando le tende appoggiate al muro che circonda la sede dell’organizzazione.

Contattata da IrpiMedia, IOM fa sapere che nel 2022 sono stati organizzati 1.600 voli di ritorno e che «da febbraio, IOM ha registrato 600 richieste supplementari di ritorno volontario e supporto alla reintegrazione», confermando la corsa della comunità subsahariana alla ricerca di una destinazione alternativa alla Tunisia. Dei voli di rimpatrio sono stati organizzati dalle singole ambasciate, come quelle di Costa d’Avorio, Camerun, Guinea e Mali. «Diversi Paesi si sono organizzati autonomamente per sostenere i loro connazionali, alcuni hanno chiesto aiuto all’IOM. Il vero problema è però dare supporto alle persone che necessitano assistenza una volta rientrate nel Paese di origine», fa sapere l’organizzazione internazionale, senza però indicare quale sia stato l’apporto dell’IOM alle ambasciate dei Paesi dai quali provengono i migranti subsahariani. Ormai, però, «iscriversi sulle liste d’attesa è quasi impossibile», commentano alcuni cittadini ivoriani – prima nazionalità per numero di sbarchi in Italia nel 2023 ad oggi. seguiti dai guineani – che ogni mattina si affollano nel cortile di fronte all’ambasciata. «C’è chi è disposto a pagare pur di ottenere un posto», raccontano. 

Il sit-in di rifugiati e richiedenti asilo di fronte alla sede di UNHCR ad aprile 2023, una settimana prima del secondo smantellamento (foto di Arianna Poletti) 
Il sit-in di rifugiati e richiedenti asilo di fronte alla sede di UNHCR ad aprile 2023, una settimana prima del secondo smantellamento (foto di Arianna Poletti) 

Imbarcarsi, l’unica via d’uscita?

Chi non può tornare indietro, allora, in assenza di soluzioni alternative, si imbarca. Gli ultimi dati sugli arrivi in Italia dalle coste tunisine indicano che, nel primo trimestre del 2023, 15.537 migranti sono sbarcati sulle coste siciliane, principalmente a Lampedusa. Rappresentano la metà dell’intero 2022, senza contare i circa 15mila intercettati[1] e fermati dalla guardia costiera tunisina. A marzo gli arrivi dalla Tunisia hanno superato quelli dalla Libia. 

Impugnando questi dati, il governo Meloni ha recentemente ripreso in mano il dossier tunisino, assicurando supporto prima politico, poi economico, al governo tunisino, anche mentre si moltiplicavano le condanne da parte della comunità internazionale: «Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, condanna fermamente la scioccante dichiarazione rilasciata dalle autorità tunisine che prende di mira gli africani e va contro i nostri principi fondanti», si legge in una dichiarazione della principale organizzazione africana che si occupa di libero scambio, a cui appartiene anche la Tunisia, due giorni dopo il discorso di Kais Saied. A metà marzo, a seguito di una prima risoluzionedel Parlamento europeo che condanna la deriva autoritaria nel Paese, anche le Nazioni Unite hanno preso posizione contro «le dichiarazioni a sfondo razzista nei confronti della comunità subsahariana nel Paese».

A seguito del discorso di Kais Saied del 21 febbraio, la società civile tunisina ha organizzato una manifestazione a sostegno della comunità subsahariana in Tunisia. (Foto di Arianna Poletti)

Mentre l’aumento delle partenze riportava sotto i riflettori mediatici la crisi economica tunisina, diversi Paesi europei hanno sostenuto la cosiddetta «lotta alla migrazione irregolare», senza mai pronunciarsi su abusi, arresti arbitrari e violenze nei confronti della comunità subsahariana in Tunisia, Italia in primis. Fin dai primi giorni che hanno seguito il discorso del 21 febbraio, le chiamate Roma-Tunisi tra i ministri di interni ed esteri non si sono mai fermate. «L’Italia è in prima linea per sostenere la Tunisia nelle sue attività di controllo delle frontiere», ribadiva il ministro degli Esteri Antonio Tajani qualche ora dopo il naufragio di Steccato di Cutro (Crotone), a fine febbraio. A pattugliare le coste tunisine, infatti, continua ad esserci l’apparato di controllo messo in piedi e finanziato da Roma.

Un budget “elastico”

Secondo i documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti da IrpiMedia, Roma nella seconda metà del 2022 ha stanziato 12 milioni di euro in più per il programma Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia, lanciato il 9 dicembre 2020 dal Ministero degli esteri e della cooperazione italiana (Maeci) e dal Ministero degli interni tunisino. A implementare il progetto è l’Unops, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi ed i progetti, che in questo caso si occupa di gestire le gare di appalto e assicurare la buona riuscita delle varie fasi del programma portato avanti dall’Italia. 

I finanziamenti vengono assicurati dal cosiddetto Fondo Premialità per le politiche di rimpatrio, istituito nel 2019 con il Decreto sicurezza bis e co-finanziato per un’importante quota parte attraverso la Legge di Stabilità. Un fondo da 63 milioni di euro con quattro Paesi destinatari: Tunisia, Albania, Ucraina e Bangladesh. Più della metà di questi, però, sono stati concessi esclusivamente allo Stato nordafricano nel tentativo di controllare la frequentata rotta del Mediterraneo centrale. Nel 2020[2], il budget allocato al programma implementato da Unops in Tunisia era di 8 milioni di euro, con scadenza prevista nel 2023, 33 mesi dopo. A fine 2021[3], è stato alzato a 15 milioni e la scadenza prorogata fino al 2025 (49 mesi di durata complessiva). A inizio 2023[4], il budget è infine arrivato a 27 milioni di euro, senza variazioni nella durata complessiva. Come raccontato da IrpiMedia e ActionAid nell’ambito del progetto The Big Wall, il programma prevede la rimessa in efficienza di sei imbarcazioni già in possesso della Guardia costiera tunisina dal 2014 e la fornitura di alcuni equipaggiamenti richiesti dal Ministero degli Interni di Tunisi. 

Nei documenti di Unops, si legge che i prezzi per le forniture «tendono a essere sottostimati» e che, di conseguenza, i fondi necessari si sono rivelati essere più di quelli inizialmente previsti visto che equipaggiamenti e manutenzione avrebbero richiesto costi maggiori. Secondo Unops, è stato necessario «allineare» il budget ai prezzi di mercato e alle richieste della Tunisia, aumentate dalla prima lista fornita dalle autorità di Tunisi al Maeci e Unops. Sulla carta, questa formula giustifica il recente aumento dei fondi del progetto. Al di là di questa possibile spiegazione “tecnica”, ci sarebbe però un motivo più politico: continuare a garantire fondi alla Tunisia in un contesto di forte aumento delle partenze, sfruttando un meccanismo rodato come quello dei finanziamenti che passano per il Fondo premialità. Per quanto è stato possibile verificare da IrpiMedia e ActionAid, c’è una grande discrezionalità nel modo in cui vengono allocati i soldi di questo Fondo. Il processo di definizione di questi progetti è talmente opaco che rende impossibile per il Parlamento qualunque forma di monitoraggio e di indirizzo. Di conseguenza, anche per le organizzazioni della società civile non è possibile capire né le motivazioni che giustificano la scelta di alcuni progetti rispetto ad altri, né sapere quali sono i referenti istituzionali che definiscono strategie e scelte di finanziamento. Gli incrementi al Fondo vengono stabiliti dal Ministero dell’Interno – di concerto con il Ministero dell’Economia e degli Esteri – pescando dal disavanzo d’esercizio dei fondi destinati all’accoglienza. Il resto, come dicevamo, è finanziato dalla Legge di Stabilità. Finora gli incrementi del budget sono sempre stati stabiliti nella seconda metà dell’anno, in estate. 

A rimettere in in efficienza le sei imbarcazioni date dall’Italia alla Tunisia, è  ancora una volta il Cantiere Navale Vittoria (CNV), partner storico della Guardia costiera tunisina che ha già avuto in carico la costruzione di quelle stesse sei motovedette nel 2011 e una loro prima manutenzione nel 2017, per un costo totale di 28 milioni di euro. Due imbarcazioni (GN3504 e 3505) sono state rimesse in efficienza da marzo a luglio 2022 nei cantieri CNV ad Adria (Rovigo), poi riconsegnate alle autorità tunisine ad  agosto dell’anno scorso. Altre due motovedette (GN3502 e GN3506) sono state trasferite in Italia un mese dopo, a settembre, e dopo una sosta a Reggio Calabria si trovano ancora nei locali di Cantiere Navale Vittoria, si legge sull’interim report di Unops. 

Se le operazioni di manutenzione sui mezzi della Guardia costiera sono facilmente collegabili al programma di sostegno al controllo delle frontiere tunisine, il  rapporto tra gli obiettivi dichiarati del progetto Sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori in Tunisia e il resto dell’equipaggiamento richiesto dal Ministero degli Interni tunisino sembrerebbe meno evidente. Oltre a strumenti come un laboratorio di analisi per il prelievo di Dna o un sistema di rilevamento di presenza umana installato nel porto di Rades, a Tunisi, la lista include una serie di veicoli terrestri come minivan, quad, ambulanze, pick-up e mezzi per il trasporto di detenuti. È difficile però verificare che questi non vengano usati per commettere abusi dei diritti umani. Le associazioni della società civile tunisina hanno ripetutamente denunciato che, nel contesto attuale, specialmente a partire dal discorso del presidente tunisino del 21 febbraio, si sono moltiplicati gli arresti di cittadini subsahariani, nella maggior parte dei casi in situazione di irregolarità, ma anche regolari, rifugiati e richiedenti asilo. La Lega Tunisina per i Diritti Umani, per esempio, ha fatto sapere in un comunicato che un gruppo di studenti regolarmente iscritti nelle università tunisine si è ritrovato in detenzione arbitraria nel centro di Ouardia.

Ai mezzi arrivati dall’altra parte del Mediterraneo attraverso il programma di Unops, si sono aggiunti anche 100 pick-up della marca Nissan Navara, secondo due determine del Viminale di marzo[5] e novembre[6] 2021, come riportato anche in una recente inchiesta di Altreconomia. L’obiettivo è sempre lo stesso: «Supportare il governo tunisino nell’ambito delle attività di contrasto all’immigrazione, in un momento in cui tale attività è di primaria importanza per la sicurezza nazionale, anche alla luce dei recenti sbarchi sulle coste italiane di migranti provenienti dalle acque territoriali tunisine». 

Il colpo di Stato del presidente della Repubblica tunisino Kais Saied, il 25 luglio 2021, non è bastato a fermare i finanziamenti italiani volti all’esternalizzazione delle nostre frontiere e di quelle dell’Unione Europea. Proprio il parlamento europeo denunciava il 16 marzo scorso «la deriva autoritaria del presidente e la strumentalizzazione della drammatica situazione socioeconomica della Tunisia al fine di invertire la storica transizione democratica del paese», chiedendo di «porre fine alla repressione in atto nei confronti della società civile». In Tunisia, l’inizio del 2023 è stato scandito dall’aumento degli arresti di oppositori politici, attivisti, giornalisti e sindacalisti, oltre che da quelli dei migranti di origine subsahariana. A mettere in atto misure che ormai anche Bruxelles definisce «repressive», è proprio il ministero che riceve i fondi europei e italiani: quello degli Interni, la sede del potere di polizia. Una parte dei vertici di quel ministero Ministero, come denuncia la società civile dal 2011, non sono mai stati giudicati per i presunti crimini commessi durante la rivoluzione di dodici anni fa, nonostante i processi istituiti nel quadro della giustizia transizionale, che sembra oramai essersi arenata in un contesto di accentramento dei poteri. Il prezzo politico dell’esternalizzazione delle frontiere.


[1] ttps://www.webdo.tn/fr/actualite/national/migration-irreguliere-501-operations-dejouees-et-14-406-personnes-secourues-en-trois-mois/204642

[2] https://drive.google.com/file/d/1uT7rJVTnwaTaV16GExq4H9VBNYFDH9yB/view?usp=sharing

[3] https://drive.google.com/file/d/1ZWHsp4PcvzYOO22S04G7YDgt55iETvL6/view?usp=sharing

[4] https://drive.google.com/file/d/1G_SRkMRxaG71ZbNSF-ySeswj17yfvceT/view?usp=sharing

[5] https://drive.google.com/file/d/1GXyJWePdhnBth-9Bxf2l6hiHFiwZHjQ0/view?usp=sharing

[6] https://drive.google.com/file/d/1jNyRTf5QQPvbAHBtkOtM_-AmRK3fpnnr/view?usp=sharing

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