Un fondo italiano nato nel 2019 premia i paesi più “collaborativi” nel riprendersi i propri cittadini: soldi, sotto forma di progetti, in cambio di rimpatri. La Tunisia è in cima alla lista dei paesi finanziati, nonostante la crisi e la deriva autoritaria.
Di Lorenzo Figoni (ActionAid)
Il Presidente tunisino Kais Saied, che ha accentrato sempre più il potere nelle proprie mani a partire dalla decisione di sospendere il Parlamento nel luglio 2021, ha rifiutato nei giorni scorsi un pacchetto di salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI) da 1,9 miliardi di dollari. Il tutto dichiarando che “i diktat dall’estero che portano solo a un ulteriore impoverimento sono inaccettabili, l’alternativa è contare su noi stessi, siamo un paese sovrano”. L’intenzione, alla luce degli interessi italiani quanto europei, è quella di procedere con urgenza alla stabilizzazione dell’economia tunisina, un elemento chiave nell’agenda del governo in carica.
Stabilizzare la Tunisia per tenere alti i muri
Dall’Italia, in una recente intervista al Corriere della Sera, il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, sostiene la necessità di una “soluzione di compromesso: dare un primo sostegno, perché i tunisini sostengono che senza soldi non possono fare le riforme. Se poi non intervengono la Ue o il Fmi e intervengono la Cina o la Russia come la mettiamo?”. Saied chiede dunque più soldi per portare avanti indisturbato il progetto di un paese sotto il proprio controllo: le risorse devono arrivare, ma alle sue condizioni. L’unanimità degli intenti verso un sostegno alla Tunisia è da inquadrare però soprattutto alla luce dell’ossessione sulla gestione e il controllo dei flussi migratori che vedono il paese nordafricano come paese di origine e snodo rilevante. Un elemento riscontrato anche nelle parole del Commissario europeo per gli affari economici e monetari, Paolo Gentiloni, il quale sostiene che la stabilizzazione sia “una premessa anche per gestire il tema dei flussi migratori: non possiamo nasconderci dal fatto che molti flussi dall’Africa subsahariana si sono concentrati in Tunisia. […] La Tunisia ha bisogno di aiuti per gestire in modo umanitario la presenza di queste persone, per favorire i rimpatri volontari quando ce ne siano le condizioni e per gestire i movimenti verso l’Unione Europea, sapendo che bisogna lavorare sempre di più per migrazioni regolari, di cui la nostra economia ha tra l’altro bisogno, e sempre meno invece per incoraggiare i movimenti irregolari che mettono a rischio la vita delle persone”.
Nonostante ciò, le scelte politiche dell’Unione Europea e dell’Italia in merito sono state caratterizzate sempre più da un restringimento dei canali di ingresso regolare, accompagnato dal controllo dei confini e della loro esternalizzazione verso paesi terzi attraverso cospicui finanziamenti. Una direzione politica che ha condotto alle documentate violazioni di diritti umani da parte delle cosiddette guardie costiere libiche, a una sostanziale costrizione all’irregolarità e alle conseguenti difficoltà e sofferenze per le persone migranti. Le conseguenze di tale approccio, con le specificità del caso, si riscontrano però anche in Tunisia.
Ad ogni costo
“Esiste un piano criminale per cambiare la nostra composizione demografica. La presenza dei subsahariani è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo”. Le parole del Presidente Saied hanno contribuito a un’escalation di violenze nei confronti delle persone migranti o rifugiate provenienti dall’Africa subsahariana, conducendo ad un aumento delle discriminazioni razziali che non ha risparmiato in alcuni casi gli stessi cittadini tunisini. Una pericolosa retorica del complotto più volte riciclata anche dalle destre europee (a cui strizzano l’occhio anche le dichiarazioni del Ministro dell’Agricoltura Lollobrigida) che dà la misura della criticità della situazione. Nonostante sia stata recentemente riconfermata all’interno della lista dei paesi “di origine sicura”, l’aumento delle discriminazioni ,basate anche sull’orientamento sessuale, delle limitazioni della libertà di espressione e di stampae e delle incarcerazioni per motivi , mettono in evidenza i crescenti rischi di violazione dei diritti umani nel Paese.
La Tunisia però chiede più soldi e lo fa alle condizioni di Saied, per poter continuare il proprio progetto autoritario sfruttando anche il panico alimentato dai media europei sulla sempre ricorrente narrazione dell’emergenza migratoria e dell’invasione. Soldi in cambio del blocco delle partenze. Nulla di nuovo nelle relazioni tra il Paese Nord Africano e l’Italia che, a partire dal 2019, finanzia la cooperazione migratoria bilaterale ricorrendo a uno strumento finanziario ad hoc: il Fondo di Premialità per le politiche di rimpatrio (di seguito “Fondo Premialità”) di cui la quasi totalità delle risorse è andata in questi ultimi anni proprio alla Tunisia.
Il Fondo Premialità per le Politiche di Rimpatrio
Nella confusione ormai fisiologica della decretazione d’urgenza, il contestato decreto sicurezza-bis del 2019 dava la luce al Fondo Premialità, volto a “finanziare interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione europea”. Interventi “di cooperazione” – finanziati interamente dall’Italia – in premio a quei paesi che avrebbero collaborato maggiormente in termini di rimpatri. Un fondo che, nonostante le preoccupazioni iniziali circa la mancata menzione del rispetto dei diritti umani nei paesi terzi di riferimento, viene istituito così come proposto, rimanendo però inizialmente inutilizzato.
Così fino al 2020, quando la Ministra Lamorgese concorda e autorizza le prime allocazioni di risorse sul Fondo Premialità e di conseguenza i primi interventi. Ad oggi, sono stati 14 gli interventi finanziati (€57.998.000,00), dei quali 10 (€45.000.000,00) hanno riguardato la Tunisia. La documentazione relativa ai progetti parla di consegna di veicoli per il trasporto di prigionieri, quad, pickup, corsi di formazione, pezzi di ricambio per le motovedette, minibus. Interventi il cui obiettivo è il sostegno alle attività di controllo dei confini da parte del Paese nord africano. Le informazioni sull’effettivo impiego di queste risorse sono pressoché inesistenti sottolineando una delle caratteristiche peculiari della cooperazione migratoria negli ultimi anni: la mancanza di trasparenza che rende molto difficile il controllo democratico sia da parte del Parlamento che della società civile.
Il tutto con un fondo che, per una parte consistente, si finanzia con risorse risparmiate dalla spesa in accoglienza. Risorse che invece di potenziare e migliorare quello stesso sistema di accoglienza vengono utilizzate per “comprare” la possibilità di effettuare più rimpatri. Un’accoglienza che, peraltro, viene dichiarata al collasso per i numeri troppo elevati ma che così al collasso non è: dati raccolti da ActionAid e Openpolis, infatti, raccontano che nel 2021 erano presenti 20.235 posti liberi, 25.000 nel 2020, circa 33.000 nel 2019.
Gli Stati dell’emergenza
Cavalcando la preoccupazione legata alle vicende tunisine e alla narrazione emergenziale degli sbarchi, l’11 aprile è stato dichiarato “lo stato di emergenza per i migranti”. Uno stato d’emergenza con alla base solamente i numeri relativi agli sbarchi, su cui il focus mediatico si restringe lasciando fuori dal campo visivo i dati relativi ad altri fattori come l’accoglienza, le ripartizioni delle risorse e le relative spese, come i reali impatti delle politiche migratorie di stampo securitario. La possibilità di dichiarare lo stato d’emergenza in Italia tiene conto probabilmente di una situazione critica in Tunisia, ma ne prende atto solamente in merito alle conseguenze e alle potenziali ricadute sui propri confini. Lo si fa inoltre continuando imperterriti nel tenere in piedi il paravento giuridico di un “paese di origine sicuro”, funzionale sempre e solamente a mantenere serrati i confini per i cittadini tunisini. In questa contrapposizione va grattata via la patina mediatica di uno “stato d’emergenza” italiano, scoprendo finalmente che la mancanza di trasparenza e di chiarezza nell’accesso e nella rielaborazione dei dati diventa la base per costruire ad hoc un qualsiasi stato d’emergenza. Il tutto affidandosi esclusivamente al martellare mediatico sul numero degli sbarchi, legittimando così il continuo investimento di milioni in paesi terzi e in politiche repressive, attraverso strumenti ambigui e volti alla repressione della libertà di movimento proprio come il Fondo Premialità.